Le minacce dell’Iran sull’uranio arricchito, spiegate
Cosa potrebbe succedere se l'Iran violasse l'accordo sul nucleare del 2015? E perché tutto questo interessa anche l'Europa?
Lunedì l’Iran ha minacciato di violare uno dei punti centrali dell’accordo sul nucleare iraniano firmato nel 2015 da un gruppo ampio di paesi, tra cui diversi stati europei e gli Stati Uniti. Behrouz Kamalvandi, portavoce dell’Organizzazione Iraniana per l’Energia Atomica (AEOI), principale organo responsabile delle installazioni nucleari in Iran, ha detto che nei prossimi dieci giorni l’Iran supererà il limite di riserve di uranio arricchito previsto dall’accordo, fissato a 300 kg di riserve. Kamalvandi ha anche detto che l’Iran potrebbe aumentare il livello di arricchimento dell’uranio dal 3,67 per cento attuale al 20 per cento, non ancora sufficiente per la produzione di armi nucleari ma molto più vicino. Non è detto che la minaccia si concretizzerà: il regime iraniano ha fatto sapere che «c’è ancora tempo» per fermarsi, e che dipenderà tutto da quello che decideranno di fare con l’Iran i paesi europei firmatari dell’accordo.
Per il momento quella dell’Iran è solo una minaccia, anche perché aumentare le riserve di uranio arricchito – al livello di arricchimento attuale dell’uranio, fissato al 3,67 per cento – non significa automaticamente che il regime iraniano riuscirà a dotarsi in breve tempo di un’arma nucleare, lo scenario che più spaventa l’Occidente. Le parole del portavoce dell’AEOI sono comunque molto importanti: sono un messaggio rivolto più all’Europa che agli Stati Uniti, e potrebbero preannunciare la fine di uno degli accordi internazionali più rilevanti e sorprendenti degli ultimi anni.
Partiamo dall’inizio: di che accordo si parla?
Il limite di uranio arricchito fu fissato dall’accordo sul nucleare firmato a Losanna nell’aprile 2015, e definito «storico» da molti analisti ed esperti. L’accordo si basava su uno scambio: l’Iran si sarebbe impegnato a ridurre di circa due terzi il numero delle sue centrifughe e a rinunciare in parte alla sua capacità di arricchire l’uranio – entrambi elementi necessari per la costruzione della bomba nucleare – mentre gli altri paesi firmatari avrebbero rimosso alcune delle sanzioni internazionali imposte sull’economia iraniana. L’accordo era stato il risultato di un processo diplomatico durato anni e molto faticoso, che aveva avuto successo grazie soprattutto alle aperture dell’amministrazione statunitense di Barack Obama e agli sforzi dell’Alto rappresentante dell’Unione Europea per gli Affari esteri, l’italiana Federica Mogherini, e del ministro degli Esteri iraniano, Mohammad Javad Zarif.
L’accordo rimase in piedi per poco meno di tre anni, anche se con risultati non all’altezza delle attese.
Nel maggio 2018 Donald Trump annunciò il ritiro degli Stati Uniti dall’accordo. Il presidente statunitense era sempre stato contrario alle politiche di Obama verso l’Iran, e in diverse occasioni aveva sostenuto che l’accordo fosse svantaggioso per gli Stati Uniti. Condizionato dai suoi consiglieri più intransigenti, decise così di cambiare completamente approccio, credendo che reintroducendo le sanzioni avrebbe costretto la leadership iraniana a rinegoziare un nuovo accordo, questa volta più soddisfacente per gli interessi nazionali statunitensi.
Quando le cose cambiarono: le nuove sanzioni statunitensi
All’inizio di agosto del 2018 gli Stati Uniti annunciarono la reintroduzione di alcune delle sanzioni commerciali all’Iran che erano state sospese nel 2015 a seguito della firma dell’accordo. I problemi derivanti dalla reintroduzione delle sanzioni furono soprattutto due.
Primo: fu un colpo durissimo per il governo guidato dal presidente Hassan Rouhani, appartenente all’orientamento dei Moderati e considerato la parte più progressista – se così si può dire – e più aperta del regime iraniano. Rouhani era stato il principale promotore dell’accordo sul nucleare, e per favorirlo era andato contro ai potenti ultraconservatori iraniani guidati da Ali Khamenei, la Guida Suprema, ovvero la carica politica e religiosa più importante dell’Iran. Colpire l’accordo sul nucleare significava per lo più colpire quella parte del regime disposta a dialogare con l’Occidente.
Secondo: le sanzioni misero in enorme difficoltà i molti paesi europei che avevano firmato l’accordo e che avevano contato sull’impegno preso dagli Stati Uniti. Il problema è che le sanzioni statunitensi sono particolari, perché hanno una componente “extraterritoriale”. Oltre a colpire i cittadini e le aziende americane che violano il divieto di commerciare e di utilizzare i conti di persone del paese sanzionato (componente primaria), colpiscono anche soggetti non americani (componente “extraterritoriale”): prevedono cioè che qualsiasi società, ovunque abbia la sede, debba rispettare le sanzioni americane quando vengono usati i dollari per compiere le transazioni – cioè quasi sempre – e quando le stesse aziende hanno succursali negli Stati Uniti o sono controllate da americani – ovvero la maggior parte delle grandi società europee.
In altre parole: la decisione di Trump di ritirarsi dall’accordo sul nucleare, oltre a creare molta rabbia e frustrazione in Iran e a far crescere un nuovo sentimento nazionalistico, condizionò enormemente le politiche europee verso il regime iraniano, in un modo che ha effetti ancora oggi.
I tentativi dell’Europa di tenere in piedi l’accordo
Negli ultimi mesi l’Unione Europea ha tentato in diversi modi di rassicurare l’Iran, dicendo che avrebbe fatto tutto il possibile per provare a tenere in piedi l’accordo sul nucleare. Ad oggi, però, sembra che non sia bastato.
L’Unione Europea ha provato a bloccare gli effetti dell’extraterritorialità delle sanzioni statunitensi muovendosi in due direzioni: riattivando il cosiddetto “blocking statute”, una misura introdotta negli anni Novanta per tutelare i cittadini europei danneggiati dalle aziende che decidevano di rispettare le sanzioni extraterritoriali; ed estendendo il mandato della Banca europea per gli investimenti (BEI), dandole il potere di fornire garanzie sulle attività finanziarie con l’Iran e sostenere gli investimenti europei nel paese. Entrambe le politiche si sono però rilevate di alto valore politico ma di scarsa utilità pratica, ha scritto l’ISPI, e finora le grandi aziende europee con interessi globali hanno deciso di rinunciare al mercato iraniano, quando messe di fronte all’eventualità di vedere i loro affari con gli Stati Uniti indeboliti dalle sanzioni.
Alcuni paesi europei hanno anche creato un meccanismo legale chiamato “Instrument in Support of Trade Exchanges”, con l’obiettivo di facilitare i pagamenti da e verso l’Iran per sottrarre le aziende europee alle conseguenze dell’extraterritorialità delle sanzioni statunitensi. Il meccanismo è stato istituito da Germania, Regno Unito e Francia a inizio 2019, ma per funzionare a regime deve essere accompagnato da un sistema simile in Iran, che però non è stato ancora creato. Nella migliore delle ipotesi, ha scritto il New York Times, sarà solo un modo per commerciare i beni al momento non oggetto di sanzioni, tra cui medicine e cibo, ma potrà fare poco per preservare il settore petrolifero iraniano e quello bancario.
Cosa può succedere ora?
È improbabile che l’Europa riesca a soddisfare la richiesta iraniana di prendere completamente le distanze dagli Stati Uniti di Trump e garantire la ripresa dei rapporti commerciali bilaterali: la volontà potrebbe anche esserci, almeno da parte di alcuni paesi europei, ma a mancare sono gli strumenti per costringere le aziende europee a ignorare gli effetti delle sanzioni statunitensi.
Se l’Iran dovesse davvero violare il limite di uranio arricchito previsto dall’accordo sul nucleare, i rapporti tra il regime di Teheran e gli Stati Uniti potrebbero peggiorare ulteriormente, così come potrebbe aumentare la tensione attorno allo Stretto di Hormuz, dove è stato compiuto l’attacco contro le due petroliere la scorsa settimana. Il segretario di Stato americano, Mike Pompeo, ha detto che gli Stati Uniti stanno considerando «tutte le opzioni» per rispondere agli attacchi contro le due petroliere, incluse eventuali operazioni militari. Secondo alcuni analisti, la violazione da parte dell’Iran dell’accordo sul nucleare potrebbe portare altri paesi firmatari non ostili verso il regime iraniano, come Russia e Cina, ad avvicinarsi alle posizioni statunitensi e decidere di reintrodurre le sanzioni economiche all’Iran.