Cosa sono gli “sbarchi fantasma”
Mentre tutti guardano alle ong, da anni – e anche in questi giorni – imbarcazioni di piccole dimensioni gestite da gruppi criminali portano migranti in Italia
Negli ultimi giorni il caso di immigrazione di cui si parla di più, in Italia, riguarda le 53 persone soccorse al largo della Libia dalla nave Sea Watch di una ong tedesca, alla quale il ministro dell’Interno Matteo Salvini intende vietare lo sbarco in Italia. Nelle ultime due settimane, però, più del triplo di persone è sbarcato in Italia senza che la notizia venisse ripresa dai principali giornali nazionali e diventasse un “caso”.
Il 2 giugno una settantina di persone è sbarcata a Torre Colimena, in provincia di Taranto; cinque giorni più tardi altri 65 migranti sono stati intercettati dalla Guardia di Finanza al largo di Roccella Jonica, nei pressi di Reggio Calabria. Il giorno successivo, sabato 8 giugno, 53 migranti sono sbarcati poco più a nord, nel porto di Crotone. I tre episodi non sono accomunati soltanto dall’essere stati trascurati dai media, ma anche dalle modalità con cui sono avvenuti. In tutti e tre i casi i migranti erano a bordo di piccole imbarcazioni guidate da scafisti di origine est-europea.
Il fenomeno è noto da qualche anno come “sbarchi fantasma“: cioè quegli sbarchi che avvengono a bordo di gommoni o piccole imbarcazioni difficilmente individuabili dalle autorità italiane ed europee, sia in mare sia dopo lo sbarco, se avvengono in maniera autonoma. Negli ultimi tempi però è cambiato qualcosa: mentre prima queste imbarcazioni partivano soprattutto dalla Tunisia, oggi il traffico si svolge soprattutto sulla rotta Turchia-Italia a causa del coinvolgimento della criminalità organizzata russa e di alcuni paesi balcanici. La loro prominenza nel traffico di esseri umani verso l’Italia è stata citata anche nell’ultimo rapporto (PDF) della Direzione investigativa antimafia, uscito a metà del 2018.
Sugli “sbarchi fantasma”, anche a causa della loro natura, non esistono dati certi. A inizio anno il Sole 24 Ore scriveva che ogni anno arrivano in Italia fra le «3.500 e le 5.000 persone», «ma in realtà quanti siano nessuno lo sa esattamente». Sabato 8 giugno fonti del Viminale avevano fatto sapere a vari giornali che i cosiddetti «i rintracci a terra in prossimità di uno sbarco» – cioè le persone fermate dalle autorità dopo essere sbarcate in Italia in maniera autonoma – erano state 5.371 nel 2017, 3.668 nel 2018 e 737 nel 2019, invitando a evitare allarmismi.
Non è chiarissimo come vengano raccolti questi dati ma Matteo Villa, ricercatore dell’ISPI che da tempo si occupa di immigrazione, sostiene che siano plausibili. Rimane difficile tracciare una tendenza, dato che secondo Villa queste rilevazioni «dipendono moltissimo dalla capacità di realizzare i rintracci dalla parte delle forze dell’ordine: rimango dell’idea che nel corso degli anni siano rimasti più o meno costanti».
Villa però ritiene che enfatizzare la retorica degli “sbarchi fantasma” faccia perdere di vista flussi migratori più rilevanti: «i cosiddetti sbarchi fantasma esistono da anni. Quando nel 2015 centinaia di migliaia di persone usarono la rotta balcanica, alcune di loro presero una barca dalla Grecia e poi si misero in viaggio verso l’Italia. Si è tornati a parlarne da quando gli arrivi dalla Libia si sono sgonfiati tantissimo».
In ogni caso, il flusso di piccole imbarcazioni dalla Turchia sembra avere assunto caratteristiche specifiche. Una lunga inchiesta della giornalista Arianna Giunti pubblicata ad aprile sull’Espresso ha raccontato che i migranti che arrivano in Italia grazie agli “sbarchi fantasma” partono quasi tutti dallo stesso quartiere di Istanbul, in Turchia.
Il quartiere di Aksaray nei racconti di questi migranti rimane una costante fissa: è lì che, a distanza di mesi gli uni dagli altri, i profughi vanno a colpo sicuro per organizzare la fuga verso l’Europa. Sono avvicinati per strada o nei parchi da malavitosi turchi che fanno da interpreti e vengono portati a qualche chilometro dal porto della città, da dove partono le imbarcazioni fantasma. Ed è qui che i migranti conoscono gli scafisti russi. […]
Ogni episodio sembra essere la fotocopia di quello precedente: gli scafisti sono di nazionalità russa o georgiana, le navi che trasportano i migranti sono costosi motovelieri intestati a società fittizie e spesso battenti bandiera americana, le fedine penali dei comandanti dell’equipaggio sono rigorosamente immacolate.
Il prezzo richiesto da turchi e russi è molto più alto di quello chiesto dai libici, anche perché la rotta è considerevolmente più sicura: i migranti provengono spesso dal Medio Oriente o dal Pakistan. Una coppia irachena ha raccontato all’Espresso di aver pagato 26mila dollari per arrivare in Italia (circa 23mila euro), mentre un rifugiato iraniano ha parlato di 12mila dollari per un viaggio singolo. «Abbiamo viaggiato per sei giorni interi chiusi nella stiva», ha raccontato il marito della coppia irachena: «durante il lungo viaggio non ci è stato dato cibo, ma soltanto acqua. Loro [gli scafisti] cucinavano davanti a noi ma non ci davano nulla da mangiare. Potevamo nutrirci solo delle cose che avevamo fortuitamente portato con noi: gallette secche e qualche pezzo di frutta».
Fra gli scafisti sembra ci siano moltissimi ucraini: secondo dati in possesso dell’Espresso, negli ultimi quattro anni le autorità italiane hanno arrestato più di sessanta scafisti ucraini originari di Kiev, la capitale del paese. Quando anche le autorità italiane riescono a individuarli, non è facile trattenerli: «quasi sempre incensurati, una volta arrestati per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina patteggiano la pena e vengono rimpatriati. Poi tutto ricomincia», scrive l’Espresso.
I giornali che si sono occupati degli “sbarchi fantasma” hanno spesso ripetuto che le autorità italiane hanno una conoscenza ancora molto limitata dei traffici di esseri umani che li alimentano, proprio perché c’è il sospetto che siano controllati da organizzazioni criminali straniere.
Negli scorsi anni fra i pochi che avevano cercato di specializzarsi nella rotta Turchia-Italia c’era stato il Gruppo Interforze di contrasto all’immigrazione clandestina (GICIC), un gruppo di lavoro creato dalla procura di Siracusa a cui avevano aderito fra gli altri quattro magistrati e membri della Polizia, della Marina militare, della Guardia di finanza e dei Carabinieri. Dalla sua creazione nel 2006 aveva portato a più di mille arresti di presunti scafisti e trafficanti, ed era considerato una piccola eccellenza (tanto che il suo capo Carlo Parini si era guadagnato il soprannome di “cacciatore di scafisti”).
Il GICIC però è stato chiuso a novembre, quando il nuovo procuratore di Siracusa Fabio Scavone ha deciso che non era più necessario a causa dello spostamento dello hub di prima accoglienza da Augusta (in provincia di Siracusa) a Pozzallo, in provincia di Ragusa.