La gran storia delle tele dipinte da Mark Rothko per il Four Seasons
Mette insieme il ristorante dell'élite di New York – che chiude oggi – e un artista che considerava criminale spendere più di 5 dollari a pasto: non poteva finire bene
Oggi, martedì 11 giugno, chiuderà definitivamente il Four Seasons, il più importante ristorante di New York del Ventesimo secolo, frequentato da personaggi famosi, uomini d’affari e politici potenti, da Jacqueline Kennedy a Henry Kissinger, da Nora Ephron a Catherine Zeta-Jones. Aperto nel 1959 dalla famiglia Bronfman, nel luglio 2016 era stato chiuso per lavori di rinnovo e aveva riaperto in una nuova sede nell’agosto 2018; a dicembre però uno dei due proprietari, il famoso ristoratore Julian Niccolini, era stato costretto a dimettersi per comportamenti sessuali inappropriati, e nello stesso mese Pete Wells, il celebre critico gastronomico del New York Times, aveva recensito il locale portandolo da tre a due stelle. L’altro storico proprietario, Alex von Bidder, ha detto di non saper quantificare le conseguenze dello scandalo attorno a Niccolini, e che il ristorante non sapeva più attirare abbastanza clienti perché il mondo della ristorazione è cambiato.
Ci sarebbero moltissimi aneddoti per dare un’idea di cosa fosse il Four Seasons: fu lì che il presidente John F. Kennedy festeggiò i suoi 45 anni e che venne organizzato un buffet per la principessa britannica Margaret nel 1965; era lì che si incontravano i broker di Wall Street, gli uomini d’affari, i produttori tv e i direttori di giornali, che davanti a un piatto di polpette di granchio da più di 50 dollari e alla piscina della sala stringevano conoscenze e contratti. «Le persone potenti mangiano per farsi vedere con altre persone potenti», aveva scritto nel 1977 sul New York Times Michael Korda, allora direttore della casa editrice Simon & Schuster, e cliente abituale del Four Seasons. Nel 1979 il direttore di Esquire Lee Eisenberg ne aveva raccontato la clientela in un articolo intitolato America’s most powerful lunch, e da allora l’espressione è rimasta attaccata al ristorante. Nel 2010 ci mangiò anche il presidente degli Stati Uniti Barack Obama, da solo, dopo un evento di raccolta fondi: bistecca, purè di patate e broccoli saltati, pare. Tra queste storie ce n’è una che dice molto sul mondo che gravitava attorno al Four Seasons, sul carattere del grande pittore Mark Rothko e sul complicato rapporto tra mondo del potere e dell’arte.
Il Four Seasons era molto curato anche dal punto di vista estetico. Si trovava nel Seagram Building, il grattacielo a Park Avenue disegnato dall’architetto Ludwig Mies van der Rohe. L’architettura del ristorante era stata supervisionata dal suo assistente Philip Johnson, gli interni da William Pahlmann; ogni elemento, comprese le ciotole del pane, era stato immaginato da un importante designer americano. Attorno c’erano dipinti e sculture di Pablo Picasso, James Rosenquist, Richard Lippold e il quadro Blue Poles di Jackson Pollock, ora conservato alla National Gallery of Australia di Canberra. Il ristorante voleva insomma avere il meglio del meglio e per questo nel 1958 Alfred Barr, il direttore del Museum of Modern Art (MoMA) di New York, consigliò ai proprietari di scegliere Rothko e di commissionargli una serie di tele da circa 50 metri quadri per arredare le due sale del ristorante.
Rothko era nato nel 1903 nell’attuale Lettonia da una famiglia ebraica, che si trasferì in Oregon nel 1913. Divenne adolescente in povertà ma fu ammesso all’università di Yale, che detestava, e a 20 anni si trasferì a New York, dove girovagava nei musei, dormiva in giro, pativa la fame: una volta disse che «spendere più di 5 dollari per un pasto è un crimine». Non era quindi il tipo che si sarebbe visto a un tavolino del Four Seasons e molti continuano a chiedersi perché, dopo aver ottenuto la fama negli anni Quaranta, avesse accettato 35 mila dollari dell’epoca per «decorare il simbolo dell’élite danarosa di Manhattan al culmine della Guerra Fredda», come scrive il critico d’arte Jonathan Jones sul Guardian. Qui la storia diventa discordante ed è stata raccontata in due documentari e in un’opera teatrale, Red, del 2010.
Il critico Dore Ashton, assiduo dello studio di Rothko, sostiene che l’artista pensava che le opere sarebbero state appese in una sala riunioni visibile anche dalla mensa degli impiegati. Altri sono certi che non fosse così ingenuo e che fosse perfettamente consapevole delle persone per cui avrebbe dipinto. Nel 1970, dopo che Rothko fu trovato morto suicida, il giornalista John Fischer della rivista Harper’s Bazaar raccontò in Portrait Of The Artist As An Angry Man di quando lo incontrò nell’estate del 1959 in crociera con la famiglia in Italia. Rothko gli aveva raccontato che stava lavorando a una serie di grandi tele per «un posto dove i più ricchi bastardi di New York vengono a mangiare e farsi vedere», una descrizione meno gentile ma non troppo diversa nel merito da quella di Korda. «Spero di rovinare l’appetito di ogni stronzo che va a mangiarci», avrebbe sempre detto Rothko, di «farlo sentire intrappolato in una stanza dove tutte le porte e le finestre sono murate». L’intento era quindi turbare i clienti con le sue opere: Jones sul Guardian scrive che era «arte violenta, quasi terroristica, una selvaggia vendetta estetica; voleva sfruttare l’occasione di mordere le mani di quelli che l’avevano reso ricco».
Dopo la vacanza in Italia, Rothko tornò negli Stati Uniti e andò a cena al Four Seasons con la moglie Mell. Nella sala era appeso il Blue Poles di Pollock, esattamente sul muro di fronte a quello destinato alle tele di Rothko. Fu così turbato dall’esperienza che quella sera stessa, scrive Jones, Rothko chiamò un amico e gli disse che avrebbe restituito tutti i soldi della commissione e chiesto indietro le sue opere: «Chiunque mangi quel tipo di cibo e a quei prezzi non vedrà mai i miei dipinti». I quadri finirono in un deposito e nel 1969 Rothko li regalò alla Tate Modern di Londra, dove furono portati dopo lunghi negoziati. Il Four Seasons aveva chiesto un massimo di sette dipinti ma Rothko ne realizzò almeno 30, tutti caratterizzati da colori scuri e toni tetri e angosciosi: nero, rosso cupo, viola, prugna. Solo 14 sono esposti al pubblico: il gruppo più consistente di otto è conservato alla Tate di Londra, gli altri alla National Gallery of Art di Washington DC e al Kawamura Memorial Museum di Sakura, in Giappone. Nel 2008 la Tate Gallery ha raccolto per la prima volta l’intera serie, ormai nota come Seagram murals.