Il più potente leader arabo di cui non avete sentito parlare
Mohammed bin Zayed è il capo di fatto degli Emirati Arabi Uniti: è dentro a tutte le crisi del Medio Oriente, ed è molto amico di Trump
A metà aprile il presidente statunitense Donald Trump ricevette una telefonata da Mohammed bin Zayed, principe ereditario di Abu Dhabi, il più potente dei sette emirati che formano gli Emirati Arabi Uniti. Il leader emiratino fece pressioni a Trump sulla Libia: lo convinse a scaricare il governo riconosciuto dal’ONU, quello guidato dal primo ministro Fayez al Serraj, e appoggiare il suo principale avversario, il maresciallo Khalifa Haftar. Il cambio di strategia di Trump arrivò all’improvviso, senza troppe spiegazioni, e i giornali di mezzo mondo si chiesero cosa fosse successo. Era davvero possibile che il principe ereditario di un posto meno abitato di Milano potesse far cambiare idea al presidente statunitense su una crisi così importante, e per giunta al telefono?
La risposta breve è sì, anche se quella non fu l’unica cosa che condizionò Trump. L’influenza di Mohammed bin Zayed sul governo statunitense, ma più in generale sull’intera politica del Medio Oriente, è una storia poco conosciuta, che inizia da lontano, ma che da qualche anno è diventata sempre più importante.
Mohammed bin Zayed, noto sulla stampa straniera anche con la sigla MBZ, è molto diverso dagli altri leader arabi del Medio Oriente, e viene definito da qualcuno il «principe perfetto».
Si è diplomato a 18 anni all’accademia militare di Sandhurst, nel Regno Unito, e ha mantenuto nel tempo un rapporto privilegiato con l’Occidente. I funzionari statunitensi che hanno avuto a che fare con lui lo descrivono come conciso, curioso e umile: «Si versa da solo il caffè, e mentre parla del suo amore per l’America a volte racconta di quella volta che portò suo nipote a Disney World, in incognito», ha scritto il New York Times. Mohammed bin Zayed mostra sempre un’attenzione particolare verso i suoi ospiti, anche per i funzionari di medio e basso livello, che accoglie personalmente all’aeroporto offrendo un tour in elicottero sopra ai grattacieli e le lagune di Dubai e Abu Dhabi. Ma soprattutto non si scorda mai di ribadire quanto il suo paese sia molto più liberale rispetto ai vicini, per esempio riguardo alle opportunità per le donne e alla libertà religiosa.
Nonostante il suo approccio liberale, nel corso degli anni Mohammed bin Zayed ha sfruttato la sua amicizia con l’Occidente, e in particolare con gli Stati Uniti, per comprare montagne di armi e prepararsi a un eventuale scontro con i suoi nemici. Alcuni funzionari statunitensi, ha scritto il New York Times, hanno definito gli Emirati Arabi Uniti «una piccola Sparta».
Il governo emiratino cominciò a comprare armi dagli americani fin dalla sua indipendenza dal Regno Unito, nel 1971. Vent’anni dopo, durante l’invasione irachena del Kuwait decisa da Saddam Hussein, l’allora giovane principe Mohammed bin Zayed convinse gli Stati Uniti a vendergli ancora più armi e mezzi da guerra, sempre più sofisticati: missili Hellfire, elicotteri Apache, F-16, tra gli altri, in quantità che preoccuparono anche il Congresso. Il governo statunitense riteneva però che fosse un rischio accettabile – avere amici in un Medio Oriente instabile era molto importante – e rassicurò tutti sul fatto che Mohammed bin Zayed fosse un partner affidabile: «Gli Emirati Arabi Uniti non sono e non saranno mai una minaccia alla stabilità della pace nella regione», disse Richard Clarke, allora consigliere del dipartimento di Stato, durante una testimonianza di fronte al Congresso: «Gli Emirati Arabi Uniti sono una forza di pace».
Da allora sono passati quasi trent’anni e la realtà assomiglia sempre meno a quella descritta da Clarke. Mohammed bin Zayed, che oggi ha 58 anni, è diventato uno dei più potenti leader del mondo arabo – secondo alcuni il più potente – e uno di quelli con l’approccio più bellicoso.
Da tempo le ossessioni di Mohammed bin Zayed sono due: l’Iran, paese sciita in competizione con molti paesi arabi sunniti del Golfo Persico; e i Fratelli Musulmani, gruppo politico religioso che guidò alcune “primavere arabe”, i movimenti rivoluzionari che nel 2011 rovesciarono diversi governi autoritari in Nord Africa e Medio Oriente.
Negli ultimi anni le forze speciali degli Emirati Arabi Uniti sono state impiegate in Yemen, contro i ribelli houthi appoggiati dall’Iran; in Libia, in aiuto del maresciallo Khalifa Haftar e violando l’embargo sulla vendita di armi imposto dall’ONU; e nel nord della penisola del Sinai, in Egitto, in appoggio alle forze del presidente egiziano Abdel Fattah al Sisi contro gli islamisti. Il governo degli Emirati Arabi Uniti ha voluto l’embargo sul Qatar, decisione condivisa con altri paesi, tra cui l’Arabia Saudita; e ha appoggiato l’ascesa di diversi leader autoritari, tra cui l’egiziano Sisi e il saudita Mohammed bin Salman. In diversi casi – come in Yemen e in Libia – le decisioni di Mohammed bin Zayed hanno contribuito a creare crisi umanitarie gravissime, caos e instabilità. Secondo Tamara Cofman Wittes, ex funzionaria del dipartimento di Stato e oggi analista per il centro studi statunitense Brooking Institution, dare così tante armi agli Emirati Arabi Uniti, e così sofisticate, ha avuto conseguenze che sono sfuggite dal controllo del governo americano: «Abbiamo creato un piccolo Frankenstein», ha detto Wittes.
Tra le altre cose, Mohammed bin Zayed ha stretto un accordo con Erik Prince, fondatore della società di sicurezza privata conosciuta come Blackwater, coinvolta negli ultimi anni in diversi scandali per uso ingiustificato e illegale della forza. L’accordo è servito per mettere in piedi una specie di milizia di mercenari provenienti soprattutto da Colombia e Sudafrica, e addestrata a compiere operazioni speciali dentro e fuori il paese.
Ma soprattutto da tempo Mohammed bin Zayed ha grande influenza su Trump, che di politica estera ci capisce poco o niente e ha già mostrato di essere molto influenzabile.
I contatti tra Mohammed bin Zayed e Trump iniziarono ancora prima dell’insediamento di Trump alla Casa Bianca. Tra le altre cose, il principe emiratino tentò di favorire i rapporti tra l’entourage di Trump e la Russia, mossa che in seguito provocò la sua inclusione nell’indagine del procuratore speciale Robert Mueller.
Mohammed bin Zayed aveva già avuto un rapporto speciale con il predecessore di Trump, Barack Obama, ma poi c’era stata la primavera araba e le cose erano cambiate. Obama aveva appoggiato i movimenti rivoluzionari contro i leader autoritari al potere da decenni e aveva sostenuto l’ascesa dei Fratelli Musulmani in Egitto; Mohammed bin Zayed era in disaccordo su tutto. Era preoccupato che l’islamismo politico dei Fratelli Musulmani avrebbe potuto attrarre simpatie anche tra la popolazione emiratina, che si sarebbe potuta ribellare al potere della famiglia reale. È per questa ragione, hanno raccontato al New York Times diversi diplomatici, che Mohammed bin Zayed crede che il mondo arabo non sia pronto per la democrazia: se ci fossero elezioni libere gli islamisti le vincerebbero tutte, sostiene.
Ma non fu solo la primavera araba a dividere Mohammed bin Zayed da Obama: lo fecero anche le aperture statunitensi verso l’Iran (paese nemico degli Emirati), che portarono alla firma dello storico accordo sul nucleare iraniano, nel 2015.
Con Trump però le cose andarono diversamente. Il nuovo governo statunitense si mostrò fin da subito molto duro verso l’Iran e molto amico degli stati arabi del Golfo Persico. Trump diede ai leader arabi una libertà di movimento e un senso di protezione che non si erano mai visti durante gli anni di Obama, come ha dimostrato il caso dell’omicidio del giornalista dissidente Jamal Khashoggi. Khashoggi fu ucciso lo scorso ottobre da un commando saudita nel consolato saudita a Istanbul: secondo molti un’operazione così spericolata fu possibile solo perché il regime dell’Arabia Saudita si era convinto che la sua amicizia con gli Stati Uniti di Trump gli avrebbe permesso di evitare qualsiasi tipo di sanzione internazionale seria e rilevante: e così fu, alla fine.
La stessa libertà di movimento è sfruttata da tempo anche da Mohammed bin Zayed, che è diventato sempre più indipendente e aggressivo in politica estera. Marcelle Wahba, ex ambasciatrice statunitense negli Emirati, ha detto che fino a diverso tempo fa Mohammed bin Zayed cercava il “via libera” da Washington per iniziare operazioni spericolate o per prendere decisioni importanti. Ora il principe «non chiede più il permesso», ha detto Wahba: fa quello che gli pare.
Finora la maggiore intraprendenza di Mohammed bin Zayed non ha però dato i risultati sperati. In Egitto il presidente Sisi non è ancora riuscito a sconfiggere l’insurrezione islamista nel Sinai, né a risollevare l’economia, nonostante gli aiuti emiratini; l’isolamento del Qatar non ha convinto la leadership qatariota a cambiare politica verso l’Iran o i Fratelli Musulmani; in Libia il maresciallo Haftar, appoggiato anche dagli Emirati, si è rafforzato abbastanza per iniziare un’offensiva contro Tripoli e contro il governo suo rivale, ma non abbastanza per vincerla. «Pensa di essere Machiavelli, ma agisce più come Mussolini», ha detto Bruce Riedel, analista del Brooking Institution ed ex funzionario della CIA, riferendosi a Mohammed bin Zayed.
Nonostante le critiche di chi accusa il governo emiratino di creare caos e disordine, oggi Mohammed bin Zayed sembra potente come forse non lo era mai stato prima: e di questo deve ringraziare soprattutto Donald Trump, che non gli ha mai fatto mancare il suo appoggio.