Non ci sono più le spie di una volta
È un mestiere che è cambiato moltissimo negli ultimi anni: Foreign Policy racconta come e cosa devono fare i servizi segreti per evitare di diventare irrilevanti
Il mestiere della spia sta cambiando: un mondo che era già pericoloso e complesso si è fatto ancora più difficile da navigare. Social network e reti di sorveglianza hanno reso molto più semplice trovare informazioni sui propri avversari, ma allo stesso tempo hanno reso le spie più facili da riconoscere. Mentre nel mondo sviluppato e democratico l’opinione pubblica si è fatta sempre più attenta e meno tollerante nei confronti dei suoi supposti difensori anonimi, nei paesi autoritari non ci sono limiti al loro impiego, mentre i controlli sulla popolazione stanno diventando sempre più oppressivi.
Edward Lucas, giornalista ed esperto di sicurezza, ha provato a raccontare tutti questi cambiamenti e le loro conseguenze sull’ultimo numero di Foreign Policy. I principali cambiamenti sono senza dubbio quelli tecnologici. Per lungo tempo, racconta Lucas, il lavoro di spionaggio si è basato sulla costruzione di false identità. Impersonare qualcuno permetteva di avere accesso a informazioni altrimenti segrete, oppure di risiedere in un luogo senza rischio di essere arrestati (pensate alle spie che in tempo di guerra operano nelle nazioni nemiche). Ma se un tempo una falsa identità richiedeva un passaporto o al massimo alcuni documenti falsi, oggi le cose sono molto più complicate.
Per esempio, per essere credibile una spia ha bisogno anche di lunga e complicata “coda digitale”, per rendere credibile la sua esistenza: profili dei social network, cronologie di navigazione, uno smartphone realmente utilizzato e così via. Non sarebbe infatti molto credibile uno studente di architettura americano che arrivasse a Mosca o Pechino con i documenti in ordine, ma senza un profilo Facebook, Instagram o Twitter. E sarebbe altrettanto sospetto se questi profili fossero stati creati appena pochi mesi prima con contenuti banali, se il suo smartphone fosse altrettanto nuovo e se il suo conto bancario risultasse registrato di recente.
Internet ha reso necessario molto più lavoro rispetto al passato per creare una falsa identità, e ha permesso di penetrare rapidamente in quelle costruite con poca cura. Anche nel caso di un’identità fittizia ben preparata, è sufficiente trovare su internet qualche foto del sedicente “studente di architettura” durante una cena privata in compagnia del personale di qualche consolato americano o di qualche esperto di sicurezza a Washington per far crollare la sua copertura o almeno far venire seri dubbi sulla sua identità agli agenti del controspionaggio. Altri elementi rivelatori sono le informazioni finanziarie, come le operazioni eseguite sul proprio conto bancario, e tutte quelle registrate automaticamente dai nostri smartphone: dai numeri che chiamiamo agli spostamenti che facciamo.
Ma se internet e i social network sono oramai entrati da un decennio nell’arsenale dei servizi di intelligence, altre tecnologie stanno iniziando ad affacciarsi soltanto ora. Una di quelle che stanno avendo l’impatto maggiore è il riconoscimento facciale, una tecnologia che permette a telecamere e altri dispositivi di sorveglianza remota di identificare automaticamente i volti delle persone inquadrate e di associarli con quelli registrati in un database.
Quando questa tecnologia sarà completamente sviluppata, come in parte succede in Cina già oggi (lo ha raccontato uno speciale in due parti del podcast The Daily del New York Times), le missioni operative diventeranno occasioni uniche per gli agenti, che difficilmente potranno svolgerne più di un paio. Una volta identificati, infatti, gli agenti saranno oramai “bruciati”. Anche se dovessero tornare al sicuro nel loro paese al termine della missione, a quel punto saranno registrati come agenti e saranno identificabili da qualsiasi telecamera di sorveglianza.
Lucas ricorda che per una spia di un paese democratico gestire questo nuovo bagaglio di complicazioni è particolarmente difficile, visto che il suo lavoro è sottoposto a controlli politici e democratici sempre più stringenti. Sono lontani i tempi della Guerra fredda, quando ai servizi di intelligence era di fatto consentita una sorta di impunità dalla legge e un complice silenzio sulle loro attività. Oggi i giornali sono sempre più interessati alle notizie sullo spionaggio e l’opinione pubblica è poco incline a perdonare comportamenti che giudica immorali, come le intromissioni nella sua privacy.
La scoperta – grazie ad Edward Snowden – del programma di spionaggio portato avanti dall’NSA ha prodotto centinaia di prime pagine in tutto il mondo e una reazione scandalizzata da parte dei governi spiati e dell’opinione pubblica statunitense e internazionale. Ancora più impressione ha fatto la rivelazione dell’uso della tortura da parte della CIA nei suoi interrogatori e la pratica delle “extraordinary rendition”, arresti senza processo di sospetti terroristi su richiesta degli Stati Uniti e il loro trasferimento in prigioni segrete in giro per il mondo.
Un altro fenomeno è il rapporto sempre più stretto tra servizi segreti e società private di intelligence. Un tempo erano due mondi completamente separati. I servizi segreti erano una missione più che un normale impiego, un lavoro per la vita che durava fino alla pensione e oltre. Un codice non scritto ma osservato quasi ovunque faceva sì che chi si trovava a contatto con i segreti più intimi di una nazione accettasse implicitamente che per lui a quel punto non sarebbe stato possibile svolgere altri incarichi.
Oggi invece, sostiene Lucas, sempre più di frequente un impiego alla CIA o in un’altra agenzia pubblica di intelligence è il pezzo forte di un curriculum destinato a procurare a un certo punto un ricco incarico in una grande società privata di intelligence. Gli ex agenti segreti possono lavorare alle dirette dipendenze di una società che desidera proteggersi dallo spionaggio industriale dei rivali (e magari ripagarli con la stessa moneta) oppure possono entrare nel vasto mondo dello spionaggio privato: società di analisi che lavorano fornendo servizi a basso costo alle agenzie di intelligence sottoposte a tagli e ristrettezze economiche (Snowden era proprio uno di questi impiegati privati che lavoravano per l’NSA) .
Più in generale è l’idea di “spiare”, cioè raccogliere informazioni riservate su qualcuno o qualcosa per avvantaggiarsi, che si è diffusa in tutti i livelli della società. E questo, almeno in parte, accade perché spiare è diventato più economico, grazie alla possibilità di viaggiare spendendo poco e ottenere informazioni gratuitamente o quasi semplicemente navigando su internet. Lucas ricorda che se la persona con la quale stiamo uscendo non ci convince, possiamo trovare su internet interi manuali che ci spiegano come ottenere informazioni su di lei semplicemente usando il nostro browser. Volendo spendere qualcosa in più, ci si può anche affidare ad agenzie specializzate che, quando si parla di quelle meno raccomandabili, sono anche disposte a compiere qualche atto illegale in cambio del giusto compenso.
Per Lucas il rischio principale nei prossimi anni è che questo trend prosegua senza fermarsi, che le agenzie di intelligence e i metodi del mondo dello spionaggio finiscano con l’integrarsi con la società e la vita di tutti i giorni. In questo scenario, manager e governanti non faranno altro che leggere rapporti di intelligence e la raccolta di informazioni e il loro utilizzo diventeranno il centro di ogni decisione nella sfera pubblica, soprattutto nei paesi non democratici. Sequestri motivati da intercettazioni, sanzioni ed espulsioni, campagne contro organizzazioni estere e media che diffondono notizie false sarebbero all’ordine del giorno e non più solo strumenti straordinari con cui fronteggiare minacce incombenti.
Lucas sostiene che nessuno vorrebbe vivere in un paese del genere. Una società che funziona con queste regole sarebbe come la Russia di Putin, spiega, dove un’ex spia è a capo di un regime pieno di altre spie ed ex spie, oltre che di funzionari, amministratori e oligarchi che pensano e agiscono come spie. «Le società occidentali hanno bisogno dell’intelligence per difendersi da Putin», conclude Lucas, «ma non al prezzo di auto-putinizzarsi».