Lo scandalo dei Black Sox
Un secolo fa otto giocatori dei Chicago White Sox si fecero pagare per perdere le World Series, ma vennero scoperti e cancellati dalla storia del baseball
di Pietro Cabrio
Nel 1919 la Prima guerra mondiale era finita da un anno. Gli Stati Uniti ne erano usciti vittoriosi, nonostante gli oltre 100.000 soldati morti in Europa. Anche grazie alla vittoria, la fine del conflitto segnò l’inizio di una grande espansione industriale e una conseguente diffusione del benessere che contribuì a creare il mito degli anni ruggenti.
In quello stesso periodo, tuttavia, il bando su produzione, vendita e importazione di alcolici sancito dal Volstead Act ingrossò notevolmente il traffico criminale, in special modo nella più parte più sviluppata del paese, la costa orientale. Grazie al proibizionismo, personaggi come Al Capone e Charles “Lucky” Luciano guadagnarono talmente tanto potere da entrare nell’immaginario culturale del Novecento come simboli per eccellenza della criminalità.
Nello stesso anno Arnold Rothstein, famoso membro della mafia ebraica newyorkese — ritenuto uno dei primi ad aver sfruttato le opportunità create dal Volstead Act — fu tra i protagonisti del più grande scandalo sportivo dell’epoca. Da autorità del gioco d’azzardo e delle scommesse clandestine, venne al corrente del crescente malumore fra i giocatori dei White Sox, una delle due squadre di baseball di Chicago, all’epoca tra le più forti del campionato. Sfruttando il diffuso risentimento nei confronti del proprietario, pagò otto di loro per lasciare vincere le finali del campionato del 1919 agli avversari, i Cincinnati Reds.
Dalla combine nacque poi uno scandalo nazionale che per la cultura sportiva americana divenne una “maledizione”, quella dei Black Sox. Dopo i fatti del 1919 la squadra di Chicago impiegò 40 anni per tornare a giocare le World Series e addirittura 88 per vincerle di nuovo.
Il passatempo americano
Le origini del baseball professionistico nordamericano risalgono alla fondazione della prima squadra, avvenuta nel 1869. Sette anni dopo seguì l’istituzione della National League, il primo campionato professionistico. La Major League Baseball che conosciamo oggi nacque nel 1903 dall’unione della National League con l’altro campionato fondato nel frattempo, l’American League.
In quegli anni i giocatori di baseball erano già molto popolari: avevano un tenore di vita superiore alla media, firmavano autografi ed erano ritratti in figurine ricercatissime dagli appassionati. Il baseball però era ancora un “passatempo nazionale” e il professionismo di oggi molto lontano. Le squadre stavano in piedi con i soldi dei proprietari, con gli incassi delle partite e con i rari introiti generati dalle cessioni dei giocatori più forti. Come per le altre leghe sportive dell’epoca, non esistevano veri e propri organi di controllo. Erano quindi consentiti – o ignorati – comportamenti e abitudini oggi impensabili. Le partite venivano combinate di frequente e ci sono racconti di World Series vendute già nella metà degli anni Dieci: in tempo di guerra, risorse e attenzioni limitate evitavano serie conseguenze per i responsabili.
Nel 1919 le squadre ritrovarono i loro giocatori di ritorno dalla guerra. Le più quotate per la vittoria del campionato erano Boston Red Sox, New York Giants, Philadelphia Athletics e Chicago White Sox. I Red Sox si trovavano però in difficoltà economiche, per le quali furono poi costretti a vendere Babe Ruth ai New York Yankees, privandosi del giocatore che sarebbe diventato un eroe della cultura sportiva americana. I Philadelphia Athletics, invece, incapparono in una stagione pessima che conclusero all’ultimo posto della loro lega. A New York i Giants non erano ancora la squadra che fra il 1921 e il 1924 arrivò a giocare quattro edizioni consecutive delle World Series (non a caso questo avvenne solo dopo il ritiro di Hal Chase, giocatore noto per vendersi spesso).
Gli esperti White Sox, già vincitori delle World Series Nel 1917, divennero quindi i favoriti per le finali del 1919 insieme ai Cincinnati Reds, una buona squadra con un nuovo allenatore, dopo che il precedente si era ammalato di tubercolosi nella guerra in Europa.
Black Sox
I White Sox conclusero la stagione regolare con il record di vittorie della loro lega e il secondo di tutto il campionato, ma avevano un problema: il loro proprietario, Charles Comiskey, autentica istituzione del baseball con un ruolo rilevante nella fondazione delle prime leghe professionistiche. Comiskey era noto per l’estrema attenzione con la quale gestiva i conti della squadra: per tanti era più semplicemente molto avaro.
I White Sox erano ritenuti generalmente sottopagati, per essere una delle squadre più vincenti e popolari del campionato. All’epoca, inoltre, i giocatori di baseball non avevano potere contrattuale: se rifiutavano un contratto potevano perdere automaticamente il diritto di giocare tra i professionisti e rimanere senza squadra. Questo metteva i proprietari come Comiskey nella posizione di fare più o meno quello che volevano.
Nel 1919 il malcontento della squadra aumentò notevolmente. A campionato iniziato Comiskey promise ai giocatori un bonus in caso di vittoria nelle finali di lega. I White Sox le vinsero, le finali di lega, e ricevettero anche il bonus promesso da Comiskey: delle bottiglie di champagne scadente e niente che avesse del valore, come invece si aspettavano i giocatori. Nella stessa stagione uno dei migliori lanciatori in squadra, Eddie Cicotte, firmò un contratto che prevedeva un bonus sostanzioso se fosse riuscito a vincere trenta partite. Con l’ottima stagione dei White Sox il bonus sembrò quasi scontato, ma poco prima che la squadra raggiungesse le trenta vittorie, Cicotte venne lasciato in panchina: Comiskey lo voleva preservare in vista delle World Series e così lo bloccò a poche vittorie dal raggiungimento del bonus.
Negli anni della guerra molti giocatori di baseball arrotondavano le paghe combinando le partite. La loro condizione contrattuale li spingeva a cercare altri guadagni, per i quali si affidavano al vasto e ricco tessuto criminale americano. Furono queste le ragioni per cui, nell’autunno del 1919, otto giocatori di quei White Sox si fecero pagare per non vincere le finali del campionato, rovinandosi le carriere con una truffa che intaccò per anni la reputazione dello sport più popolare d’America.
La combine
La ricostruzione ritenuta più dettagliata dello scandalo del baseball del 1919 è quella fatta da David Pietrusza, scrittore e storico americano che l’ha raccontata in uno dei suoi ultimi libri. A differenza di quanto raccontato nell’opera più nota sulla vicenda, il libro Eight Men Out di Eliot Asinof, dove il mafioso newyorchese Rothstein viene descritto soltanto come figura marginale, la ricostruzione di Pietrusza attribuisce a Rothstein le maggiori responsabilità. All’epoca infatti il suo potere nel mondo della criminalità era sconfinato. Le sue attività principali erano legate al gioco d’azzardo, alle corse dei cavalli e al proibizionismo. La connotazione individualista della mafia ebraica gli permetteva – a differenza di quella italiana – di agire in maniera indipendente. In questo modo era diventato uno dei malavitosi più ricchi e conosciuti del paese.
Nell’estate del 1919 emissari di Rothstein si accordarono con i primi due giocatori dei White Sox: Chick Gandil ed Eddie Cicotte, quello che si era visto negare il bonus per le vittorie stagionali. La voce poi si sparse in certi ambienti e in poche settimane i più grandi scommettitori della costa orientale vennero al corrente che le World Series di ottobre sarebbero state truccate, e che Rothstein era coinvolto: una sorta di garanzia per la riuscita.
Tra i primi a venirne al corrente ci fu Joseph “Sport” Sullivan, l’uomo che aveva contribuito a manipolare le World Series del 1914. In occasione di una partita di campionato giocata a Boston, i due giocatori dei White Sox incontrarono Sullivan, il quale consigliò loro di coinvolgerne altri. Nei mesi successivi si unirono Fred McMullin, Claude “Lefty” Williams, George Weaver, Charles Risberg, Oscar Felsch e “Shoeless” Joe Jackson, ritenuto uno dei migliori battitori dell’epoca. Ai partecipanti vennero promessi circa 10.000 dollari ciascuno, l’equivalente di 144.000 dollari odierni.
Sullivan fu l’intermediario per conto di Rothstein, ma non l’unico. Gandil e Cicotte parlarono anche con Bill Burns, un ex giocatore sistematosi in Texas. Burns si trovava sulla costa orientale per altri affari, ma cogliendo l’opportunità si impegnò a finanziare la truffa. Non avendo però denaro a sufficienza si rivolse all’unica persona con una tale disponibilità, Rothstein, il quale aveva fatto spargere la voce sapendo che gli eventuali interessati si sarebbero rivolti a lui per il finanziamento. In questo modo Rothstein investì un’enorme quantità di denaro senza esporsi di persona, riuscendo a sembrare inizialmente escluso dalla truffa.
Quando i giocatori ricevettero i primi soldi, segno che la truffa avrebbe avuto luogo, decine di allibratori provenienti dagli stati del Midwest — quindi senza grossi legami con la malavita di New York — popolarono gli hotel e i principali luoghi di ritrovo di Cincinnati, dove il primo ottobre sarebbero iniziate le World Series. James Crusiberry, giornalista del Chicago Tribune in città per la partita, notò questa agitazione e scrisse di aver visto gli allibratori negli alberghi sventolare centinaia di dollari e accettare scommesse sulla vittoria dei White Sox. Più tardi scrisse: «Non riuscii a capirlo in quel momento, ma sentivo che qualcosa non andava».
Le World Series si giocarono al meglio delle nove partite: i White Sox intenzionati a perdere avrebbero ricevuto i soldi dopo ogni sconfitta. Nel primo inning della prima gara fu Cicotte a dare l’ultimo segnale di intesa lanciando la palla sulla schiena del battitore avversario. I White Sox persero quella partita in modo plateale (9-1), generando subito sospetti nell’ambiente del baseball. Questo complicò la riuscita della truffa, dato che alcuni giocatori, già irritati per i pagamenti ricevuti in ritardo, o non ricevuti affatto, si mostrarono titubanti.
I Reds vinsero le prime due gare, mentre i White Sox aspettarono di giocare a Chicago per portare a casa la prima vittoria. Ne seguirono altre due dei Reds e poi due dei White Sox, che portarono la serie sul 4-3 per Cincinnati all’ultima gara. Il 9 ottobre, davanti agli oltre 30.000 spettatori di Chicago, l’ultima gara delle World Series durò quasi due ore e mezza, nonostante il risultato fosse già scritto.
Indagini e processi
Rothstein non aveva lasciato tracce, ma lo avevano fatto le altre persone coinvolte, in alcuni casi anche in modo grossolano. La voci si diffusero rapidamente fino ad arrivare a Comiskey, che offrì migliaia di dollari in cambio di testimonianze affidabili. I giornali di Chicago si misero alla ricerca delle persone coinvolte, trovandone alcune disponibili a raccontare tutto. Quando le indiscrezioni divennero insistenti, si mosse la giustizia, che instituì un grand jury e diede inizio alle inchieste. Rothstein fu tirato in ballo dalle testimonianze e finì indagato. Cicotte fu il primo giocatore ad ammettere tutto, e nell’autunno del 1920 – con i White Sox vicini a un’altra finale – fu tra i sospesi. A ottobre dello stesso anno il grand jury si espresse incriminando gli indagati per associazione a delinquere, senza però menzionare Rothstein.
Il processo fu fissato per l’estate del 1921 con Shano Collins, uno dei giocatori non coinvolti nello scandalo, come parte lesa: accusava i suoi compagni di avergli negato un migliaio di dollari dalla possibile vittoria delle World Series. Poco prima dell’inizio del processo, tuttavia, due confessioni scritte fornite dai giocatori sparirono dalla corte di Cook County dove erano conservate. In aula i giocatori che le avevano fornite ritrattarono le loro versioni, privando l’accusa di una prova fondamentale. Solamente Bill Burns, uno degli scommettitori che aveva partecipato alla truffa, confessò tutto in aula, citando anche Rothstein. Nonostante ciò, la giuria del processo dichiarò tutti innocenti.
I dirigenti del baseball non furono per niente d’accordo con l’esito del processo. Già da tempo i proprietari delle squadre chiedevano misure di controllo più severe: lo scandalo creò le giuste condizioni per la nomina del primo commissioner nella storia degli sport americani, il giudice Kenesaw Mountain Landis, a cui vennero conferiti pieni poteri esecutivi. Uno dei primi atti di Landis fu la sospensione a vita degli otto giocatori coinvolti nella truffa, ai quali venne negato anche ogni futuro riconoscimento.
La squalifica colpì soprattutto “Shoeless” Joe Jackson, fra i più forti giocatori di baseball dell’epoca, idolo dei tifosi di Chicago e probabile hall of famer. Jackson si appellò contro la squalifica a vita, sostenendo dati alla mano di non aver commesso più errori del solito durante le World Series del 1919, e anzi di aver mantenuto la sua elevata media di gioco. La squalifica a vita fu tuttavia confermata poiché accettò 5.000 dollari provenienti dagli scommettitori. Un destino simile ebbe anche Fred McMullin, che non ricevette soldi e non partecipò alla truffa, ma venne comunque squalificato a vita per non aver denunciato i compagni.