I suoni delle immagini
Novant'anni fa uno studio scientifico indagò perché la maggior parte di noi – anche chi non sa leggere e scrivere – tende ad associare le stesse parole a queste due immagini
Osservate le due figure nell’immagine qui sopra: se doveste assegnare a ognuna di esse una parola tra “bouba” e “kiki”, quale sarebbe la vostra scelta?
Secondo uno studio del 2001 condotto da Vilayanur S. Ramachandran ed Edward Hubbard, neuroscienziati dell’Università della California, su alcuni studenti universitari americani e su altri indiani di lingua tamil, la maggior parte di voi probabilmente assocerebbe la parola “bouba” alla figura a destra e “kiki” a quella sinistra. Nello studio del 2001 il 95 per cento delle persone intervistate si comportò così, pur non avendo mai visto quelle figure né mai sentito quelle due parole, che sono prive di senso compiuto.
Lo studio di Ramachandran e Hubbard in realtà non è stato il primo a indagare il rapporto tra le forme geometriche e il suono che gli attribuiamo istintivamente. Nel 1929 lo psicologo tedesco Wolfgang Köhler aveva condotto un esperimento simile sull’isola di Tenerife, mostrando ai partecipanti forme simili a quelle dell’esperimento del 2001 e chiedendo di assegnare a ognuna la parola “takete” o “baluba” (diventata poi “maluma” in una seconda versione dell’esperimento). Anche in questo caso le conclusioni furono identiche: la maggior parte delle persone associava la parola “takete” alla forma spigolosa e “baluba” a quella rotondeggiante.
Il motivo per cui si verifica l’effetto “bouba/kiki” (o “takete/maluma”) non è chiaro, ma secondo Ramachandran e Hubbard si può spiegare analizzando i processi cerebrali che portano ad associare un suono a una determinata immagine. Secondo lo studio sarebbe un fenomeno non arbitrario dovuto a connessioni sensoriali in aree diverse del cervello, quella sensitiva e quella motoria. In sostanza, quando vediamo un’immagine, spigolosa o tonda che sia, il nostro cervello la associa a parole che quando vengono pronunciate fanno prendere alla bocca una forma più chiusa e tesa oppure più rotonda e aperta.
Ramachandran ha interpretato l’effetto “bouba/kiki” come una forma di sinestesia, un fenomeno che si verifica quando uno stimolo esterno (uditivo, visivo, olfattivo, tattile o gustativo) provoca una percezione sensoriale di natura diversa: così nell’effetto “bouba/kiki” a uno stimolo visivo si reagisce con una sensazione uditiva, pur non essendoci nessuna connessione tra le due cose.
Secondo Ramachandran sarebbe una conseguenza dell’evoluzione umana: nell’antichità infatti i nostri antenati assegnavano agli oggetti suoni che provocavano sensazioni simili, ma con il passare del tempo e con lo sviluppo dei linguaggi le parole per descrivere gli oggetti diventarono sempre più arbitrarie e sempre meno dipendenti da percezioni sensoriali. Il fenomeno “bouba/kiki” sarebbe quindi un processo naturale del cervello umano, che reagirebbe in maniera non arbitraria associando un suono a una forma.
Secondo lo studio il fenomeno sarebbe dovuto principalmente al modo in cui le due parole vengono dette: pronunciando la parola “kiki” la bocca fa un movimento veloce e le labbra rimangono piuttosto strette, mentre pronunciando “bouba” le labbra si aprono maggiormente, facendo prendere alla bocca una forma più rotonda. Nel corso degli anni lo studio è stato ripreso da diversi ricercatori che hanno analizzato il ruolo di consonanti e vocali nella scelta del suono da associare ad ogni figura, ma non c’è concordanza su quale abbia maggiore importanza nel funzionamento dell’effetto “bouba/kiki”.
Alcuni hanno rilevato anche che il modo in cui una parola viene scritta può avere una certa influenza: per esempio nella parola “kiki” le lettere K e I risultano affilate e spigolose anche a scriverle, mentre in “bouba” la B e la O sono tondeggianti e morbide. Nel 2003, però, la psicologa Daphne Maurer ha condotto un esperimento su bambini di 2 anni e mezzo scoprendo che anche in loro, che non sapevano leggere e scrivere, l’effetto “bouba/kiki” funzionava. Un altro studio del tedesco Fabian Bross ha rilevato che anche la quantità vocalica può influire nell’attribuzione di parole a forme geometriche, e che parole contenenti vocali lunghe vengono associate maggiormente a oggetti lunghi, e viceversa.
A conferma che l’associazione tra suoni e forme non sia arbitraria ma intrinseca nel cervello umano, uno studio del 2003, sempre di Ramachandran e Hubbard, ha rilevato che persone con danni alla circonvoluzione angolare, un’area del cervello legata alle funzioni del linguaggio, associano meno di frequente la parola “bouba” alla forma tondeggiante. Nel 2008 Ramachandran e Lindsay Oberman, inoltre, hanno condotto l’esperimento su alcuni bambini autistici, e hanno scoperto che in quelli non affetti da autismo l’effetto “bouba/kiki” veniva rilevato nell’88 per cento dei casi, quindi sostanzialmente in linea con le percentuali dello studio del 2001, mentre in quelli autistici la percentuale scendeva al 56 per cento.