Ci sono parole italiane intraducibili?
Qualche anno fa giravano liste di parole che non hanno corrispettivi in altre lingue, tra cui alcune italiane, ma forse si è un po' esagerato
Come sanno le persone che passano molto tempo su internet, anche i siti che diffondono contenuti diversi dalle notizie, o non solo notizie, attraversano delle mode: ci sono periodi in cui si parla tanto di un particolare prodotto, poi di una dieta, poi di certi meme. Tra il 2013 e il 2015 c’era un po’ la moda delle parole intraducibili da una lingua alle altre. In quel periodo potreste aver letto che in giapponese esiste una parola (tsundoku) per parlare di chi compra troppi libri finendo per non leggerli, che in tedesco ce n’è una (Fernweh) per definire la nostalgia di posti in cui non si è mai stati e che nella lingua nativa dell’Isola di Pasqua ce n’è una (manabamate) per descrivere la mancanza di appetito di quando si è innamorati.
La moda delle parole intraducibili si era diffusa soprattutto grazie ai lavori indipendenti di due illustratrici, la britannica Ella Frances Sanders, autrice del libricino di grande successo Lost in translation, pubblicato anche in Italia, e la neozelandese Anjana Iyer, che per i suoi disegni si era ispirata a un altro libro sul tema, The Meaning of Tingo di Adam Jacot de Boinod, uscito nel 2005.
Entrambe le illustratrici avevano trovato un modo per rendere le parole “intraducibili” un contenuto molto adatto a essere diffuso e condiviso online: le illustrazioni attirano l’attenzione, subito seguita dalla curiosità di scoprire quali concetti siano così diffusi in Namibia o tra gli Inuit da aver bisogno di una singola parola apposta per loro. Per questo gli articoli che parlavano del lavoro di Iyer e di quello di Sanders sono circolati molto, e Lost in translation è rimasto per quattro mesi nella lista dei libri più venduti del New York Times. Come molte cose che si possono leggere online però queste liste di parole intraducibili non sono del tutto affidabili: le loro autrici non sono poliglotte o linguiste, né si sono affidate a esperti di lingue straniere per metterle insieme, e lo si vede bene se si vanno a vedere le parole italiane incluse nelle liste.
Per esempio, nella lista di Iyer c’è “gattara”, che non indica certamente un concetto presente solo in italiano, anche se magari in Nuova Zelanda non esiste: basta pensare alla “cat lady” dei Simpson. Sia tra le parole scelte da Iyer che nella prima versione di quelle illustrate da Sanders c’è poi “culaccino”, indicata come la parola italiana per indicare il segno lasciato da un bicchiere bagnato su un tavolo: è una parola che esiste – la trovate sul vocabolario di Treccani – ma non è molto usata, molti italiani probabilmente non l’hanno mai sentita, e quindi non è particolarmente rappresentativa. Forse per questo Sanders l’aveva esclusa dalle 52 parole scelte per la versione stampata della sua lista.
Nell’edizione italiana ne manca anche un’altra, che è stata esclusa per una decisione della casa editrice Marcos y Marcos e della traduttrice Ilaria Piperno: “commuovere”. Sanders pensava che indicasse un particolare tipo di commozione, legato alla lettura o all’ascolto di una storia: in realtà non c’è una vera e propria differenza con l’inglese “to move”, nell’accezione di suscitare un sentimento. Di errori ancora più grossolani poi se ne trovano in The Meaning of Tingo, il libro a cui Iyer si era ispirata, che confonde molte parole regionali o giovanili con il vero e proprio italiano: dice per esempio che “biodegradabile” in italiano indica qualcuno che si innamora facilmente e spesso e che con “movimento” si intende un gruppo di persone che si conoscono tra loro e sono, o potrebbero essere, partner sessuali.
Può anche darsi che Adam Jacot de Boinod, Anjana Iyer e Ella Frances Sanders siano stati particolarmente sfortunati con le loro ricerche sull’italiano, ma se hanno dedicato lo stesso approfondimento alle altre lingue è probabile che ci siano anche altri errori nelle loro liste. Il problema è che non è semplicissimo scoprirlo se non si conosce qualcuno che parli in giapponese, in yiddish o nella lingua dell’Isola di Pasqua, il rapa nui.
Di sicuro è probabile che più una cultura è lontana da quelle europee, maggiore sia il suo numero di parole “intraducibili”: non tanto per le parole in sé – magari per certi concetti in italiano o in inglese non si usa un termine specifico, ma un’espressione, ma questo non vuol dire che la parola di partenza sia intraducibile – quanto per ciò che descrivono. Certe cose e certi comportamenti sono presenti in alcune culture e paesi, ma non in altri. Ad esempio, è comprensibile che in rukwangali, una lingua della Namibia, dove tendenzialmente fa caldo e c’è un deserto, ci sia una parola specifica per indicare l’atto di camminare sulla punta dei piedi sulla sabbia calda. Sempre che sia vero: è una delle parole della lista di Iyer.
Fa forse eccezione il tedesco, un po’ perché è una lingua che si presta alla creazione di neologismi (attaccando due parole tra loro è molto facile ottenerne una terza, nuova), un po’ per la propensione di chi lo parla, specialmente i letterati, a definire con grande precisione certi sentimenti: ad esempio la nota Schadenfreude che indica il piacere che si prova per la sfortuna di qualcun altro.
Per quanto riguarda le parole italiane intraducibili in altre lingue probabilmente non ce sono molte, soprattutto nelle altre lingue europee dato che le lingue, come altre cose, si mescolano tra chi vive vicino. Quelle che possono sembrare intraducibili sono legate ad alcuni aspetti culturali italiani: magari ne esiste una traduzione in inglese, per dire, ma non ha proprio le stesse sfumature di significato; oppure è necessario usare un giro di parole che può dare l’impressione di non rendere perfettamente ciò che si vuol dire. Il Post ha chiesto a due traduttori di Global Voices, agenzia di traduzione e interpretariato professionale che offre ad aziende e professionisti servizi linguistici in più di 160 lingue, un parere su alcune delle parole italiane che secondo alcune liste che si trovano online sarebbero intraducibili. Uno traduce dall’italiano al francese, l’altro dall’italiano all’inglese.
Meriggiare. Non è usatissima nemmeno in italiano, a qualcuno farà venire in mente soprattutto qualche poesia. Per chi non sa bene cosa voglia dire, significa riposare all’ombra quando fa caldo o anche fare un sonnellino dopo pranzo. La siesta spagnola è molto più nota a livello internazionale, tanto che sia in francese (modificata in sieste) che in inglese si usa direttamente questa parola. In passato però in francese si usava la parola méridienne, derivata proprio dall’italiano e si diceva faire la méridienne.
Abbiocco. Anche questa è una parola che potrebbe non essere familiare a tutti, dato che non è diffusa in tutte le regioni italiane. Significa sonnolenza, quella dovuta soprattutto a un pasto abbondante o pesante. Ci sono modi per dirlo anche in francese e in inglese, entrambi piuttosto informali e composti da più di una parola: in francese si dice coup de pompe o coup de barre, che letteralmente significano colpo di scarpa o colpo di spranga; in inglese food coma.
Apericena. Anche questo neologismo si trova citato come parola intraducibile italiana. Probabile che dipenda dal fatto che descrive un’usanza piuttosto nuova e forse poco diffusa in altri paesi. In francese viene tradotto con aperitif dînatoire, che significa esattamente la stessa cosa, anche se non c’è una contrazione come in italiano. Per quanto riguarda l’inglese, nel 2015 la parola apericena è stata in un certo senso considerata intraducibile dal Guardian, che l’ha usata in un suo titolo. Il traduttore di Global Voices ha detto: «È difficile da tradurre, ma possiamo comunque capirne il significato (o almeno possono farlo i lettori acculturati del Guardian!). Più comunemente usiamo aperitivo, una parola che la maggior parte dei britannici capirebbero, anche se immagino che non sia proprio la stessa cosa di un’apericena».
Menefreghismo. In francese esiste l’equivalente je-m’en-fichisme e la più volgare je-m’en-foutisme. In inglese si può trovare come traduzione vicina alla sfumatura italiana couldn’t-give-a-damn attitude; si potrebbe anche tradurre semplicemente con indifference, se nel contesto ha senso. Una traduzione più datata è devil may care attitude.
Tramezzino. Tra le parole intraducibili si potrebbero mettere tantissimi nomi di tipi di cibo, che semplicemente non sono diffusi all’estero: ma è un po’ barare. In questa categoria la parola tramezzino ha una storia particolare perché nasce come invenzione linguistica (di Gabriele D’Annunzio, si racconta) per tradurre l’inglese sandwich – parola che peraltro è usata identica in francese. In italiano poi tramezzino ha finito per indicare una specifica tipologia di panino imbottito, diventando dunque intraducibile, in un certo senso, altrove: in francese si potrebbe tradurre con sandwich [en] triangle, in inglese con una descrizione come triangular sandwich with crusts removed.
Qualunquismo. Una parola forse davvero intraducibile è questa e considerandone l’origine – uno specifico partito politico del passato – è facile capire perché. In francese si potrebbe tradurre con la perifrasi je-m’en-fichisme politique, in inglese con political apathy, che però non ha lo stesso stile e registro dell’italiano.
Mammone. Non è una parola intraducibile, anche se qualcuno, statistiche alla mano, potrebbe dire che descrive un fenomeno molto italiano. In inglese si traduce con mummy’s boy e in francese si può tradurre con fils à sa maman; curiosamente però si usa anche la parola Tanguy, originariamente il nome del protagonista di un film comico del 2001, un giovane di 28 anni che i genitori cercano di mandare via di casa.
Altre espressioni che secondo i traduttori di Global Voices sono particolarmente difficili da tradurre dall’italiano sono l’espressione “mi raccomando” e l’avverbio “magari”. La prima è difficile da rendere bene in francese: si può usare s’il te plaît – che significa “per favore” – ma suona meno naturale in francese rispetto all’italiano. Invece “magari” è difficile da tradurre in inglese, ma semplicemente perché può significare cose diverse a seconda del contesto: in alcuni casi è un maybe, in altri piuttosto un I wish.
Questo articolo è sponsorizzato da Global Voices.