Capire la metro C di Roma
La terza linea metropolitana di Roma è in costruzione dal 2007 e ha accumulato anni di ritardo e numerosi problemi: e il motivo non è soltanto archeologico, anzi
di Mario Macchioni– @marmacchio
“A Roma come fai un buco escono fuori i cocci”. Frasi come questa vengono utilizzate con una certa frequenza, a Roma e non solo, per spiegare la lentezza dei cantieri romani della metropolitana e la povertà della sua rete, inadeguata rispetto ai 1.285 chilometri quadrati di estensione della città: Roma ha tre linee (“due e mezzo”, si dice) lunghe complessivamente 60 chilometri, mentre Milano – che è sette volte più piccola di Roma – ne ha quattro (che saranno presto cinque) e la sua rete copre quasi cento chilometri. Il paragone con le altre capitali europee è ancora più impietoso.
Il luogo comune dei “cocci” ha effettivamente un fondo di verità: da quando a Roma si sta costruendo la linea C della metropolitana, cioè dal 2007, i ritrovamenti archeologici sono stati numerosi e rilevanti. L’ultimo in ordine di tempo è stato anche uno dei più clamorosi: un’intera caserma da 40 alloggi del II secolo dopo Cristo, trovata insieme alla casa di un ufficiale comandante, un edificio di 300 metri quadri decorato con affreschi e mosaici ben conservati. La scoperta è stata fatta nel quartiere di San Giovanni, non lontano dal centro, ma ci sono stati ritrovamenti anche fuori Roma: è il caso delle sepolture trovate a Monte Compatri – dove c’è il capolinea della metro – addirittura di epoca preistorica. Tuttavia, nonostante l’entità di questi ritrovamenti, la peculiare situazione archeologica di Roma c’entra solo in parte con la lentezza dei lavori: hanno pesato di più altri fattori, tra cui i rapporti pessimi tra l’appaltatore e la società costruttrice e alcune lacune nel progetto iniziale (ci torneremo più avanti).
«Roma ha molte similitudini con altre città antiche come Napoli e Atene», ha detto Rossella Rea, funzionaria del ministero dei Beni culturali, «ma ciò che la rende particolare è la sua straordinaria successione di fasi: si possono trovare testimonianze che vanno dal neolitico al ventesimo secolo». Rossella Rea è direttrice del Colosseo e degli scavi scientifici per la metro C, oltre a essere responsabile della tutela di una parte del centro storico della città. Secondo lei, però, non è vero che la conformazione del sottosuolo di Roma non sia adatta alla costruzione di una metropolitana. Eppure, viene naturale domandarsi se in un contesto del genere sia possibile scavare delle gallerie sottoterra per farci passare dei treni, e soprattutto farlo in tempi che non siano infiniti: i lavori per la metro C sono in corso da quasi 12 anni ma ancora non è stato aperto il tratto che passa per il centro storico.
Secondo gli esperti, la particolare conformazione della città di Roma, di per sé, non costituisce un ostacolo tecnico per la costruzione di una linea metropolitana sotterranea. «All’inizio i rapporti con gli ingegneri non sono stati facili», dice Rea, «ma poi le incomprensioni si sono appianate. Ben vengano gli scavi della metropolitana, se portano conoscenza». A un certo punto, dunque, c’è stato un rovesciamento della prospettiva: i lavori non sono più stati visti dagli archeologi come un rischio, ma come un’opportunità per accrescere le conoscenze sul sottosuolo di Roma e sulla sua storia. Del resto la Soprintendenza da sola non avrebbe né i mezzi né le risorse per portare avanti scavi di alcun genere.
Questo punto di vista è condiviso da Andrea Grimaldi, docente di architettura all’Università di Roma La Sapienza e autore dell’allestimento museale della stazione di San Giovanni. Per Grimaldi il sottosuolo di Roma non costituisce un impedimento per la costruzione di infrastrutture moderne. «La metodologia degli archeologi ha fatto grandi passi in avanti rispetto a qualche anno fa», ha detto. «Abbiamo tutti gli strumenti a disposizione per capire dove fare gli scavi e come farli, tramite carotaggi e campagne di scavo preventive». Nel far andare di pari passo gli scavi ingegneristici con quelli archeologici l’unico svantaggio sono i costi: uno “scavo stratigrafico”, cioè la tecnica con cui gli archeologi fanno emergere i diversi strati corrispondenti a diverse epoche, comporta dei costi aggiuntivi, compensati – secondo Grimaldi – dalle nuove scoperte e dalla musealizzazione della stazione, una volta completata.
Attualmente non si sa ancora quando sarà aperta la linea completa. L’ex sindaco di Roma Gianni Alemanno aveva previsto che venisse aperta entro il 2018, mentre oggi si prevede di arrivare al Colosseo a fine 2022. I giornali hanno spesso raccontato la vicenda di quest’opera parlando di «storia infinita» in occasione dei ritrovamenti archeologici o delle inchieste giudiziarie, generando l’equivoco per cui il problema sia la stratificazione archeologica di Roma. Molti esperti però hanno da tempo confutato questo argomento, e con loro i cittadini che animano pagine Facebook come “Comitato Metro x Roma” e “Salviamo La Metro C”. Per capire quali siano effettivamente i motivi dei ritardi bisogna partire dall’inizio.
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Il comune di Roma avviò gli studi per quella che sarebbe diventata la terza linea metropolitana della città all’inizio degli anni Novanta. La prima legge a finanziare il progetto preliminare è del febbraio 1992, e l’idea iniziale era completarla in tempo per il Giubileo del 2000. Negli anni Novanta a Roma c’erano due linee di metropolitana: la A, aperta nel 1980, e la B, inaugurata nel 1955 ma ampliata solamente nel 1990.
Il progetto preliminare della linea fu approvato dal comune di Roma nel giugno del 2002, quando era sindaco Walter Veltroni, e poi inviato alla regione Lazio e ai ministeri competenti l’anno successivo. Nel 2004 il CIPE (Comitato Interministeriale per la Programmazione Economica) nominò la società Roma Metropolitane – controllata al 100 per cento dal comune di Roma – “soggetto attuatore” dell’opera e individuò il tracciato da costruire, sulla base dei pareri dei ministeri, della Soprintendenza e della regione. Infine, nel 2005, venne pubblicato il bando di gara per affidare l’opera, vinto da un raggruppamento temporaneo di imprese che nel 2006 si unirono per formare il consorzio Metro C Spa.
La costruzione dell’opera fu affidata con una modalità che viene definita “a contraente generale”. Il contraente generale (noto anche con il nome inglese di general contractor) è una figura introdotta nel 2001 dalla cosiddetta Legge Obiettivo, quella per lo sviluppo e il finanziamento di grandi opere infrastrutturali: sostanzialmente è il responsabile dei lavori di una grande opera pubblica, delegato dagli enti che la commissionano ma che non hanno gli adeguati mezzi tecnici per seguirla. In sostanza, trasferisce alcune responsabilità su chi esegue i lavori.
A questo punto è utile riepilogare le parti in causa nominate fin qui, da tenere a mente per orientarsi nel resto della storia: una società composta da diverse imprese costruttrici, associate tra loro con lo scopo di costruire la linea; il comune di Roma; la società esterna che gestisce l’appalto, cioè Roma Metropolitane. E poi lo Stato, rappresentato dal CIPE, un organo collegiale del governo che (semplificando molto) decide in merito ai grandi investimenti pubblici e ne assegna i finanziamenti.
A questi va aggiunto un altro attore che ha un ruolo importante: la Soprintendenza archeologica di Roma. Le soprintendenze sono organi periferici del ministero dei Beni culturali, con diversi distaccamenti regionali. Nel Lazio ci sono quattro soprintendenze, tra cui quella per la tutela dei beni archeologici e culturali di Roma, che gode di una certa autonomia. La Soprintendenza di Roma è importante perché vigila sulle attività che coinvolgono le aree della città sottoposte a vincolo ambientale, sia di tipo paesaggistico che di tipo archeologico: per fare qualunque tipo di lavori in queste aree bisogna necessariamente ottenere la sua autorizzazione.
La gara affidata nel 2006 prevedeva un tracciato che partiva dall’estrema periferia orientale di Roma ed entrava nella città finendo oltre il Tevere, verso nord, dalle parti di piazzale Clodio. Il tracciato era composto, e lo è tuttora, da diverse tratte, per le quali sono stati redatti dei progetti differenti: soltanto una era definitiva fin dall’inizio, quella che passa nel centro. Da subito ci furono due problemi: innanzitutto i lavori furono pensati in due tranche, la seconda delle quali «sospensivamente condizionata all’acquisizione del relativo finanziamento», quindi non finanziata e priva di progetto definitivo; il secondo problema è che non fu elaborato un programma ben definito su come svolgere i lavori in relazione agli scavi archeologici. La conformazione del sottosuolo di Roma avrebbe richiesto indagini più estese, e invece, come scrive in una delibera del 2015 l’ANAC (Autorità nazionale anticorruzione), Roma Metropolitane ha «messo a gara un progetto di tale rilevanza in carenza di adeguate indagini preventive, per una parte molto estesa del tracciato, senza tener in debito conto i pareri espressi dalla Soprintendenza archeologica».
In effetti, il grosso delle indagini archeologiche fu fatto solo dopo che i lavori erano iniziati. Per farle venne incaricata la società costruttrice, che però poté operare solamente nelle tratte non ancora definitive: quindi non nell’area tra San Giovanni e Centocelle, in cui c’è una densità di reperti piuttosto alta e dove dei rilevamenti erano già stati fatti dalla Soprintendenza e dal comune.
«Non è vero che la Soprintendenza ha causato rallentamenti nei lavori, casomai è vero il contrario», ha detto Fabrizio Paolo Di Paola, amministratore delegato di Metro C Spa. «Per quanto mi riguarda, ha contribuito a darci le linee guida per andare avanti nel modo più veloce possibile. Con loro ci siamo trovati molto bene». Le linee guida di cui parla Di Paola sono i “Prontuari archeologici”, degli accordi tra le Soprintendenze competenti che stabiliscono le linee guida da seguire durante le operazioni di scavo e rimozione di reperti. Il problema è che i “Prontuari” furono introdotti circa tre anni dopo l’inizio della costruzione della linea. «I reperti diventano un ostacolo solo nel momento in cui bisogna realizzare le stazioni», dice Di Paola, «perché il resto della galleria è scavato in una parte del sottosuolo “sterile”, quindi non c’è motivo di ritenere che sia un ostacolo. Basta preventivare la zona in cui è possibile scavare».
In realtà capire dove scavare non è stato così immediato nel caso della metro C: una delle varianti più corpose fu la numero 22 del 2009, che aumentò il costo di 35 milioni di euro. Il progetto iniziale prevedeva di costruire una galleria molto in superficie e passare sopra il tratto già esistente della metro A, salvo poi scoprire che in quello strato del sottosuolo c’erano strutture murarie e altri resti; si pensò quindi di riprogettare gli scavi e farli molto più in profondità, sotto le gallerie della metro A, e si rifece da capo anche il progetto della stazione di San Giovanni, dove metro C e metro A si incontrano. Questa variante fu approvata da Roma Metropolitane nel luglio del 2009, ma vista la sua consistenza necessitava anche di un’approvazione dello Stato, che arrivò il 3 agosto 2011, più di due anni dopo. Sono tempi abbastanza normali per organi burocratici complessi come il CIPE: prima che una delibera venga approvata, il provvedimento deve passare attraverso una serie di verifiche da parte del ministero delle Finanze, della presidenza del Consiglio, della segreteria del CIPE stesso e della Corte dei Conti.
Nel frattempo, stando a quanto si legge sul sito del consorzio, nel marzo 2010 il comune aveva ordinato di sospendere la progettazione della seconda parte dei lavori per la mancanza di «superiori determinazioni» da parte dell’amministrazione stessa, motivo per cui la tratta terminale che dovrebbe arrivare a Roma Nord ancora oggi non ha un progetto definitivo. Da allora, nove anni fa, non sono arrivate ulteriori comunicazioni sull’argomento, dice Di Paola: «Onestamente, il nostro problema più grande è stato proprio il rapporto con Roma Metropolitane. Con loro abbiamo tre cause legali in corso, e dopo la fine dei lavori al Colosseo partirà probabilmente un’altra grossa causa».
Le cause di cui parla Di Paola sono dovute a pagamenti di svariate centinaia di milioni di euro richiesti a Roma Metropolitane, perlopiù per l’allungamento dei tempi di contratto e per attività e progettazioni varie. Tuttavia, i contenziosi in corso tra il consorzio e Roma Metropolitane non sono l’unico problema giudiziario della metro C: nel corso degli anni, infatti, hanno indagato sulla questione la Corte dei Conti, l’ANAC e la Procura di Roma. L’inchiesta più rilevante è quella della procura di Roma, che si è chiusa lo scorso anno e che coinvolge ex membri delle giunte di Alemanno e di Marino (Antonello Aurigemma e Guido Improta) ed ex dirigenti di Roma Metropolitane e di Metro C Spa. Ancora non è noto se per i 25 indagati verrà richiesto o meno il rinvio a giudizio.
Tra le varie parti del progetto rimaste indefinite e senza un destino chiaro c’è anche la stazione di piazza Venezia: a Metro C Spa furono richiesti due progetti, uno consegnato nel 2013, come stazione passante, e uno nel 2015, come capolinea; nessuno di questi è stato approvato e reso esecutivo, anche perché nel 2015 terminò tra le polemiche il mandato da sindaco di Ignazio Marino e subentrò un commissario straordinario, Francesco Paolo Tronca.
Le successive elezioni si svolsero nel giugno del 2016 e furono vinte dalla candidata del Movimento 5 Stelle Virginia Raggi, ancora in carica. Nei suoi quasi tre anni di mandato l’attuale sindaca di Roma non ha ancora preso una decisione, ma lo scorso febbraio ha visitato il cantiere della metro e ha manifestato apertamente la sua volontà di proseguire i lavori fino a piazzale Clodio, per cui una decisione sul destino di piazza Venezia andrà necessariamente presa. Peraltro questa stazione avrebbe dovuto fare da interscambio con la linea D, un progetto di una quarta metropolitana in discussione da più di dieci anni: l’inizio dei lavori era previsto per il 2011 ma poi il bando di gara fu revocato e il progetto è ancora oggi in fase di studio.
«I progetti della stazione di piazza Venezia sono rimasti sospesi perché ce ne siamo andati via noi», ha detto Guido Improta, ex assessore ai Trasporti nella giunta di Ignazio Marino. Improta non ha mai avuto contatti diretti con la società costruttrice ma solo con Roma Metropolitane, e questa è una delle tante anomalie di cui si accorse non appena si insediò: «Ogni qualvolta arrivava la fattura, Roma Capitale doveva pagarla senza entrare nel merito dei lavori e senza poterli controllare. Eppure l’ente finanziatore è Roma Capitale, insieme alla regione e allo Stato, non Roma Metropolitane». Secondo Improta, Roma Metropolitane era trattata come se fosse un’emanazione diretta del comune e non una società esterna: le veniva lasciata troppa autonomia e, sostanzialmente, nessuno controllava il controllore. «L’unica cosa di cui sono stato messo al corrente all’inizio del mio mandato», ha aggiunto, «è stata l’impossibilità di revocare il contratto con Metro C Spa a meno di non incorrere in una causa milionaria, nonostante nel 2013 si fosse già in ritardo di quasi due anni sul cronoprogramma».
Un’altra delle anomalie notate da Improta fu «la governance, inefficiente e inefficace»: non c’era nessuno che facesse da guida e che desse un indirizzo chiaro, nemmeno lo Stato che dopotutto ci mette la gran parte dei soldi; è per questo che le 45 varianti al progetto (che secondo la delibera ANAC del 2018 hanno fatto aumentare i costi di 315 milioni di euro) sono state approvate tutte tra il 2009 e il 2013, perché in quel periodo la situazione era particolarmente confusa e quindi, a detta di Improta, l’operato di Metro C e di Roma Metropolitane non è stato ottimale. «Guarda caso, fino al 2013 tutti dormivano. Poi, quando è arrivato qualcuno che si è messo di traverso, tutti si sono svegliati e infatti, nel 2014, il primo tratto della metropolitana è stato inaugurato».
A proposito dei costi, in giro si leggono cifre diverse e contraddittorie. Il sito dell’azienda costruttrice dice che la stima alla base dell’aggiudicazione della gara era di 3 miliardi e 47 milioni di euro, cifra che poi è salita a 3 miliardi e 740 milioni di euro. Il 70 per cento di questa cifra è stanziato dallo Stato, mentre il restante 30 per cento se lo dividono il comune di Roma e la regione: non è insolito che lo Stato metta dei soldi in opere pubbliche che apparentemente non hanno carattere nazionale, specialmente se sono opere grandi e importanti come ponti, autostrade, linee metropolitane e ferrovie. Il grosso dell’aumento dei costi, comunque, è dovuto alle varianti archeologiche.
Sui ritardi la questione è altrettanto complessa: la previsione iniziale, cambiata varie volte a partire dal 2010, è stata ampiamente disattesa. Si prevede di arrivare con i lavori al Colosseo per il dicembre del 2022, mentre la giunta Alemanno prevedeva di aprire l’intera linea nel 2018. Le cause sono quelle che abbiamo visto fin qui: le 45 varianti, che talvolta comportano lunghi tempi di approvazione; il progetto iniziale frammentato e non definitivo; le carenti indagini archeologiche; la “litigiosità” tra società appaltante e società costruttrice; la governance inefficace.
«È vero che si sarebbero dovuti fare adeguati rilevamenti preventivi per non incorrere in ritardi», ha detto l’ex assessore Improta, «però è anche vero che per la metro C è stata fatta la campagna di scavi archeologici più grande della storia della città». Improta lascia intendere che nell’ambito del progetto della metro C ognuno abbia cercato di «tirare l’acqua al proprio mulino», compresa la Soprintendenza e Metro C Spa: la prima cogliendo l’occasione degli scavi archeologici, la seconda trovandosi a svolgere lavori più complicati del previsto e quindi chiedendo il conto a Roma Metropolitane, che a sua volta ha cercato di scaricare una parte di responsabilità al comune. Nel 2014 Roma Metropolitane fece addirittura causa a Roma Capitale, cioè il suo unico azionista. Per evitare questa situazione complicata ci sarebbe voluto un coordinamento più efficiente tra le parti, che evidentemente non c’è stato. I “cocci” invece sì, ci sono stati, ma a Roma con quelli ci hanno fatto persino un monte.