L’omicidio di Massimo D’Antona, 20 anni fa
Era un avvocato esperto di diritto del lavoro e consulente di vari governi: fu ucciso in un agguato di fronte alla sua abitazione dalle Nuove Brigate Rosse
Erano da poco passate le otto di mattina quando il 20 maggio del 1999 il professor Massimo D’Antona, giuslavorista e consulente del ministero del Lavoro, fu ucciso poco dopo essere uscito dalla sua abitazione in via Salaria a Roma. All’altezza dell’incrocio con via Adda, poco distante, lo stavano aspettando un uomo e una donna, membri del gruppo terroristico Nuove Brigate Rosse. I testimoni hanno raccontato che prima di sparare i due brigatisti si avvicinarono a D’Antona e gli parlarono brevemente. Probabilmente si accertarono della sua identità. Poi, alle 8 e 13, l’uomo tirò fuori una pistola e sparò nove colpi che andarono tutti a segno. Quello fatale colpì il professor D’Antona al cuore. Trasportato in ospedale venne dichiarato morto alle ore 9 e 30.
La rivendicazione dell’agguato arrivò poche ore dopo. Il messaggio, lungo 14 pagine, era firmato da una sigla ancora sconosciuta al grande pubblico: Nuove Brigate Rosse, un nome che evocava le Brigate Rosse, il più organizzato ed efficiente gruppo terrorista nella recente storia europea, operativo in Italia tra gli anni Settanta e la fine degli anni Ottanta, responsabile del rapimento e dell’uccisione del presidente della Democrazia Cristiana Aldo Moro. I brigatisti avevano cessato le loro attività nel 1989 in seguito ai duri colpi subiti dalla magistratura e dalle forze di polizia e il nuovo gruppo che aveva rivendicato l’omicidio non aveva con loro forti legami, a parte quelli ideologici. Per le Nuove Brigate Rosse, D’Antona era un simbolo della borghesia e dell’oppressione della classe operaia, che alla fine degli anni Novanta stava cambiando a causa della flessibilizzazione e precarizzazione del lavoro che in quegli anni stavano portando avanti centrosinistra e centrodestra.
Quando fu ucciso, D’Antona aveva appena compiuto 51 anni. Era nato a Roma, ma aveva svolto i suoi primi incarichi di docente del diritto del lavoro all’Università di Catania, per poi trasferirsi alla Seconda Università di Napoli (che, dopo la morte, gli ha dedicato l’aula magna) per poi approdare alla Sapienza di Roma. Era un allievo di un altro famoso giurista, Renato Scognamiglio, e si specializzò in particolare nelle tematiche del pubblico impiego. Nella sua carriera fu spesso vicino al centrosinistra. Era un simpatizzante del Partito Comunista e fu membro della consulta giuridica della CGIL, il gruppo di giuristi e avvocati che supporta il principale sindacato italiano.
Nel 1996, durante il primo governo Prodi, fu nominato amministratore straordinario dell’ENAV, la società pubblica che si occupa di gestire il controllo dei voli, un incarico per il quale era ritenuto particolarmente adatto vista la complessità tecnica dei contratti dei controllori di volo (l’anno prima aveva per breve tempo ricoperto l’incarico di sottosegretario ai Trasporti nel governo Dini). Nel 1998 si dimise dall’incarico e fu chiamato come consulente dal ministro del Lavoro Antonio Bassolino.
Erano anni di grandi cambiamenti per il diritto del lavoro. L’Italia, come la Francia e gli altri paesi europei continentali, aveva sviluppato nel corso dei decenni un diritto del lavoro imperniato sulla contrattazione nazionale e su ampie tutele per i lavoratori. Tra la fine degli anni Ottanta e gli anni Novanta, questo sistema era finito sotto attacco perché accusato di eccessiva rigidità. Nel 1997, Massimo D’Alema, allora segretario del principale partito di sinistra, disse che era arrivato il momento di togliere alcuni diritti a una parte dei lavoratori per dare più diritti a tutti gli altri. Negli anni successivi una serie di leggi, a partire dal famoso “pacchetto Treu”, introdusse le norme che disciplinavano la flessibilizzazione del lavoro e introducevano le prime forme di precariato.
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D’Antona lavorò insieme al ministro Treu, ma si occupò in particolare della parte della riforma che riguardava le rappresentanze sindacali (non direttamente la flessibilizzazione dunque). Questo non impedì alle Brigate Rosse di identificarlo come un simbolo delle recenti riforme del diritto del lavoro: un esponente di quella che definirono nel loro volantino “Borghesia Internazionale” e il complice di un piano globale per ridurre i diritti dei lavoratori. Secondo magistrati e investigatori, invece, le Nuove Brigate Rosse scelsero D’Antona soprattutto perché era un bersaglio facile da colpire.
L’omicidio D’Antona fu l’inizio della breve offensiva delle Nuove Brigate Rosse. Tre anni dopo, il gruppo uccise un altro giuslavorista consulente del governo, il professor Marco Biagi. Il secondo omicidio del gruppo causò grande scalpore a livello nazionale, in particolare perché erano emerse alcune avvisaglie del fatto che il professore potesse essere un obiettivo di gruppi terroristici di estrema sinistra. Biagi fu l’ultimo obiettivo che le Nuove Brigate Rosse riuscirono a colpire.
L’anno dopo, i due membri del commando che aveva ucciso D’Antona furono fermati dalla polizia su un treno per un normale controllo. Presi dal panico cominciarono a sparare contro gli agenti. Mario Galesi, che aveva sparato i colpi che avevano ucciso Massimo D’Antona, fu ferito e morì poche ore dopo in ospedale. Fu ucciso anche il sovrintendente di polizia Emanuele Petri, che aveva chiesto loro i documenti. La polizia riuscì invece ad arrestare la compagna di viaggio di Galesi, Nadia Desdemona Lioce, una dei leader del nuovo gruppo terroristico, presente sulla scena sia dell’omicidio D’Antona che di quello Biagi. Tre anni dopo l’omicidio D’Antona, l’intero commando dei responsabili della sua morte era stato arrestato e nei mesi e anni successivi furono tutti condannati. Nadia Desdemona Lioce, il capo del commando, si trova ancora oggi all’ergastolo che sconta nel regime particolarmente duro del 41bis.