La scienza dei gatti
Dopo anni di studi sui cani, un gruppo di intrepidi ricercatori ha affrontato graffi e il disinteresse felino per colmare le nostre lacune sulla loro intelligenza sociale
Dopo avere trascurato a lungo l’intelligenza sociale dei gatti, ritenendo quella dei cani più interessante e semplice da mettere alla prova, negli ultimi anni diversi ricercatori hanno avviato studi più approfonditi sul gatto domestico, scoprendo che in molte circostanze mostra più interesse per i suoi padroni rispetto a quanto immaginato. I progressi sono stati raccontati di recente sul sito della rivista scientifica Science, attraverso l’esperienza di alcuni ricercatori che hanno dedicato tempo (e moltissima pazienza) alle loro cavie feline.
A differenza dei cani, i gatti sono quasi sempre meno collaborativi e interessati a sottoporsi ai test per misurare le loro inclinazioni sociali. Questo spiega, almeno in parte, perché nei decenni siano state prodotte centinaia di ricerche sul comportamento dei cani, mentre i gatti siano rimasti confinati in pochi angoli della letteratura scientifica con poche decine di studi sul loro conto.
Nel 1996 Brian Hare, all’epoca uno studente dell’Emory University di Atlanta, stava studiando il comportamento dei lattanti, e in particolare la loro capacità di superare il “test del puntamento del dito”, dove viene richiamata l’attenzione indicando un oggetto nello spazio: il test è considerato superato se il bambino volge lo sguardo in direzione del punto indicato, dimostrando di avere la capacità di interagire con le indicazioni di un adulto. Mentre svolgeva l’esperimento, Hare si rivolse a un collega dicendogli: “Penso che anche il mio cane potrebbe fare qualcosa di simile”.
Due anni dopo Hare pubblicò una prima ricerca scientifica nella quale mostrava come i cani fossero in grado di superare il test del puntamento, capendo le indicazioni dei loro padroni. Una ricerca analoga, realizzata da Ádám Miklósi dell’Università Eötvös Loránd di Budapest (Ungheria), fu pubblicata lo stesso anno confermando la circostanza. I due studi cambiarono sensibilmente l’approccio della ricerca scientifica nei confronti dei cani. Negli anni seguenti furono realizzate centinaia di esperimenti e di ricerche sugli aspetti più vari del funzionamento della mente dei cani: dalla capacità di riconoscere parte del linguaggio umano al sapere interpretare le emozioni delle persone in base alle loro espressioni del viso.
Nel 2005, Miklósi pensò fosse arrivato il momento di lasciare temporaneamente il florido settore delle ricerche sui cani per dedicarsi ai gatti. Pubblicò un primo studio nel quale metteva a confronto il modo in cui cani e gatti comunicano con gli esseri umani, basato su alcuni esperimenti condotti nelle case dei loro proprietari, a partire dal test del puntamento. Saltò fuori che i gatti erano abili quanto i cani a superarlo, ma che era estremamente difficile lavorare con loro: perdevano interesse quasi subito, scappavano o non collaboravano con i ricercatori, un problema riscontrato da altri gruppi di ricerca.
Lo studio di Miklósi era promettente, ma non raccolse da subito l’attenzione dei colleghi. Alcuni provarono a riprodurre i suoi test e a effettuarne altri, dovendosi però arrendere davanti a un’evidenza: i gatti non collaborano quanto i cani, al punto da non valer la pena di rimediare graffi e continue delusioni in laboratorio.
A distanza di una decina di anni dalla pubblicazione del lavoro di Miklósi le cose iniziarono a cambiare, con diversi ricercatori in giro per il mondo impegnati nello studio più sistematico dei gatti, che ha permesso di scoprire cose che i loro proprietari avevano magari già notato, ma senza evidenze scientifiche. Nel 2015, per esempio, una ricerca raccontò come i gatti adattino molti dei loro comportamenti alle emozioni che mostrano i loro padroni: l’entusiasmo e la curiosità dimostrata per alcuni oggetti, per esempio, si riflette in un comportamento più interessato e indagatore da parte del loro gatto.
Alla Oregon State University, negli Stati Uniti, la ricercatrice Kristyn Vitale mette alla prova il comportamento dei gatti con un rigoroso approccio scientifico, orientato a confrontare o smentire le ricerche pubblicate su questi animali negli ultimi anni. Nel suo laboratorio si avvicendano diversi gatti, che partecipano a esperimenti, anche se talvolta mostrano un totale disinteresse verso gli sforzi di Vitale e dei suoi colleghi.
Diversi esperimenti prevedono la collaborazione dei proprietari dei gatti. In uno di questi, un gatto viene fatto accomodare dal suo padrone in una stanza, per essere poi lasciato solo. Viene poi valutata la reazione del gatto: solitamente si agita, si avvicina alla porta dalla quale è uscito il suo padrone e inizia a lamentarsi miagolando; quando il padrone ritorna, il gatto si calma, gli si avvicina e inizia a strusciarsi, poi se ne disinteressa e riprende a esplorare la stanza. Secondo Vitale, un comportamento di questo tipo non indica che il gatto non abbia interesse nella persona con cui è abituato a vivere. Al contrario, se ne allontana per esplorare la stanza perché ha fiducia nel padrone e in se stesso, fino a quando sa di essere nella stanza con chi potrebbe prendersi cura di lui nel caso di un imprevisto.
Vitale si occupa di gatti da circa cinque anni e si è specializzata nello studio dei gattini, e nei modi più adeguati per aiutarli a socializzare con gli sconosciuti. Queste conoscenze le sono molto utili anche con i gatti adulti, quando arrivano al suo laboratorio, comprensibilmente impauriti dalla novità e dalla presenza di così tante persone sconosciute.
Nel corso degli anni, Vitale con i suoi colleghi ha scritto ricerche su vari aspetti dei comportamenti sociali dei gatti, segnalando per esempio come preferiscano interagire con le persone invece che col cibo e i giochi, se posti davanti a una scelta di questo tipo. Quest’anno una sua ricerca ha illustrato come i gatti trascorrano più tempo con le persone che gli dedicano maggiori attenzioni, compreso il fatto di chiamarli per nome e di incuriosirli con oggetti e situazioni che si verificano intorno a loro. Un comportamento che secondo Vitale è sovrapponibile al costante “stato di attenzione” che i cani dimostrano di avere nei confronti dei loro padroni.
Vitale è arrivata a questa conclusione dopo diversi esperimenti, alcuni ripresi da ricerche svolte in precedenza. In uno di questi, un gatto e il suo proprietario vengono fatti accomodare in una stanza vuota, poi un ricercatore entra al suo interno per collocarvi un ventilatore, accenderlo e uscire. Sulla griglia del ventilatore sono collocate alcune strisce colorate, che si muovono spostate dall’aria mossa dalla ventola. Il gatto di solito reagisce con diffidenza, restando nei paraggi del suo padrone e a debita distanza da quello strano oggetto rumoroso. Se però il padrone si avvicina al ventilatore, inizia a giocarci e a mantenere un contatto visivo con il suo gatto, questo vince le sue riserve e si avvicina a sua volta alla ventola. Secondo Vitale, questo comportamento non solo dimostra come il gatto sia attento a cosa fa il suo padrone, ma anche come sia disposto a fidarsi e a far proprio l’atteggiamento positivo verso una novità.
Péter Pongrácz, un ricercatore collega di Miklósi, ha invece condotti alcuni esperimenti portando il test del puntamento al livello successivo: usare semplicemente uno sguardo e non un dito. Nella sua ricerca scrive che nel 70 per cento dei casi i gatti hanno mostrato di seguire lo sguardo e l’oggetto verso cui puntava, una percentuale paragonabile a quella ottenuta in test simili con i cani. Altri ricercatori in Giappone hanno invece pubblicato uno studio dicendo di avere riscontrato la capacità di alcuni gatti di riconoscere la voce dei loro padroni.
I cani furono tra i primissimi animali a essere addomesticati dall’uomo, secondo le stime più recenti almeno 15mila anni fa, partendo dal lupo grigio (Canis lupus). L’addomesticamento dei gatti è di qualche millennio più recente, collocabile intorno ai 9.500 anni fa. Mentre i lupi erano comunque animali sociali, i gatti selvatici dai quali discendono i gatti dei nostri giorni erano sostanzialmente felini antisociali, poco inclini alla gerarchia e a vivere in strutture sociali elaborate. Le teorie più condivise dicono che in un certo senso i gatti si addomesticarono da soli nel Vicino Oriente: iniziarono a frequentare gli insediamenti degli esseri umani, che conservando il cibo attiravano topi e altri piccoli roditori, prede ideali per i gatti.
Come altri animali domestici, cani e gatti hanno in comune capacità notevoli di adattamento per vivere in compagnia degli esseri umani, caratteristiche che li hanno resi ideali per l’addomesticamento. La capacità di sapere interpretare, entro certi limiti, il comportamento dei loro padroni, i loro sguardi e le loro espressioni, per esempio, sono state fondamentali e ideali per consentire il proseguimento delle loro specie. Lo studio di queste caratteristiche potrebbe fornirci qualche informazione in più su come si sia evoluto il genere umano: nel corso della nostra evoluzione, infatti, abbiamo dimostrato una spiccata capacità di “auto-addomesticarci”, diventando via via meno aggressivi e in grado di collaborare tra noi.