Cosa vedere alla Biennale d’arte di Venezia
I padiglioni e gli artisti che si stanno facendo notare all'importante esposizione artistica appena inaugurata, aperta fino al 24 novembre
di Arianna Cavallo
Dall’11 maggio al 24 novembre Venezia ospiterà la Biennale d’arte, una delle più importanti esposizioni d’arte contemporanea di tutto il mondo, che si tiene ogni due anni. Questa edizione, la 58esima, è curata dallo statunitense Ralph Rugoff, direttore della Hayward Gallery di Londra, e si intitola May You Live In Interesting Times: il titolo viene da un detto inglese erroneamente riferito a una maledizione cinese che augurava al nemico di vivere in tempi incerti, di crisi e disordini: “interessanti”, quindi, come i nostri. Non c’è un tema unificatore ma il motto è un invito ad affrontare il presente: le tragedie dei migranti, le nuove ineguaglianze, il cambiamento climatico, il razzismo, la violenza dei regimi. Se un tema si può trovare è l’intensità emotiva dei progetti, che spesso mettono in scena terrori e violenze, condividono incubi e allucinazioni, con una intensa presa emotiva sullo spettatore.
Rugoff ha ridotto il numero degli artisti (da 120 dell’edizione del 2017 agli attuali 79) e dei paesi partecipanti (38 anziché 51); per la prima volta metà degli artisti sono donne e hanno meno di 40 anni; quasi tutte le opere sono state realizzate dopo il 2010 e molte non sono mai state esposte, cosa che rende la rassegna più contemporanea del solito.
Le sedi espositive, come ogni anno, sono due: i Giardini e l’Arsenale. I Giardini, che furono la sede della prima Biennale del 1895, ospitano il Padiglione Centrale curato da Rugoff e i 29 padiglioni più antichi, come il Regno Unito, la Francia e la Germania. Nell’Arsenale, che ha uno spazio espositivo di 50mila metri quadrati, ci sono altri padiglioni internazionali, parte della mostra internazionale curata da Rugoff e il Padiglione Italia, che si trova alle Tese delle vergini ed è stato curato da Milovan Farronato, direttore del Fiorucci Art Trust, un importante centro di produzione artistica londinese. Ci sono infine 21 eventi collaterali ospitati in chiese, palazzi, conventi e magazzini (li trovate qui) e molte altre rassegne che non fanno capo alla Biennale ma sono state organizzate per l’occasione (tra tutte: la retrospettiva su Jannis Kounellis a cura di Germano Celant alla Fondazione Prada e quella di Georg Baselitz nelle Gallerie dell’Accademia, l’installazione di Fornasetti al Fondaco dei Tedeschi e la mostra della fotografa di Dior Brigitte Niedermair a Palazzo Mocenigo).
La mostra internazionale curata da Rugoff è divisa in due parti: Proposizione A, nell’Arsenale, e Proposizione B, nel Padiglione Centrale. Ognuna sottolinea aspetti diversi – in particolare, l’Arsenale raccoglie opere più grandi e monumentali – e molti artisti sono presenti in entrambe. Rugoff ha raccontato di essersi ispirato al libro di Umberto Eco, Opera Aperta, del 1962, perché «porta l’attenzione sulla capacità dell’arte di ispirare nuovi modi di guardare e di comportarsi». Il risultato, nonostante o grazie a un tema così vasto e indefinito, è generalmente piaciuto molto: la critica d’arte del Guardian Laura Cumming ha definito la mostra internazionale curata da Rugoff «il più potente ritratto dell’arte contemporanea da anni». Rugoff ha specificato che, anche se i grossi temi del nostro tempo sono al centro del lavoro degli artisti, «l’arte è più di un documento del suo tempo» e che quindi «non esiste una narrativa o una tematica a tutto campo». Jennifer Higgie, dell’autorevole rivista d’arte Frieze, ha scritto che «è una doppia benedizione: nella migliore delle ipotesi consente alle idee di esprimersi nello spazio del loro farsi; nella peggiore, l’espressione è cacofonica».
La mostra internazionale è affiancata dalle partecipazioni nazionali, cioè i Padiglioni curati da ogni singolo paese, in tutto 90. Quattro paesi – Ghana, Madagascar, Malesia e Pakistan – partecipano per la prima volta, mentre la Repubblica Dominicana era già stata presente ma mai con un proprio padiglione. All’ultimo momento il governo dell’Algeria e del Kazakistan hanno annullato la loro partecipazione.
Di seguito abbiamo messo insieme un po’ di cose da sapere, gli artisti e i padiglioni da non perdere.
Il Padiglione della Lituania
Ha vinto il Leone d’oro per le partecipazioni nazionali su decisione della giuria, composta dalla presidente Stephanie Rosenthal e da Defne Ayas, Cristiana Collu, Sunjung Kim e Hamza Walker. È quello di cui si è già parlato di più e che ha messo d’accordo la maggior parte dei critici, che l’ha ritenuto interessante, evocativo, emozionante. Si chiama Sun & Sea (Marina), è curato dalle artiste e amiche Lina Lapelyte (compositrice musicale), Vaiva Grainyte (drammaturga) e Rugile Barzdziukaite (regista di teatro) e si trova nel magazzino della Marina dell’Arsenale. Mette in scena una spiaggia finta con persone vere che la vivono: uomini, donne, bambini che leggono, sonnecchiano, giocano con paletta e secchiello, che si godono una giornata al mare, mentre il visitatore li osserva dall’alto. Gli attori cantano insieme una musica malinconica composta appositamente; l’opera è stata allestita dall’italiana Lucia Pietroiusti. Se volete potete anche partecipare, compilando un modulo e portandovi dietro costume da bagno e asciugamano. L’installazione si può visitare sempre ma la performance con gli attori c’è solo di sabato e mercoledì dalle 10 alle 18.
Gli artisti vincitori
La giuria ha consegnato il premio alla carriera al 78violenne Jimmie Durham, presente con i suoi oggetti assemblati all’Arsenale, mentre il Leone d’Oro per il miglior partecipante è stato consegnato allo statunitense Arthur Jafa per The White Album, che mette insieme filmati che raccontano la violenza dei bianchi sui neri affiancati alla testimonianza di un suprematista bianco.
Il Leone d’argento per l’artista più promettente è andato al cipriota Haris Epaminonda (1980) e poi ci sono state due menzioni speciali. Una alla messicana Teresa Margolles, che ha portato nel Padiglione Centrale un blocco del muro di Ciudad Juarez, una delle città più violente al mondo, e alcuni pannelli delle fermate degli bus con affissi gli annunci delle ragazze scomparse, rapite o uccise; l’altra alla nigeriana Otobong Nkanga.
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Il Padiglione Italia
Si intitola Né altra Né questa: La sfida al Labirinto, si trova nell’Arsenale ed è curato da Milovan Farronato, che ha raccolto le opere di tre artisti: Enrico David (1966), Liliana Moro (1961) e Chiara Fumai (1978-2017). È ispirato al saggio La sfida al labirinto di Italo Calvino del 1962 e si serve della struttura del labirinto per esporre opere diverse tra loro che si intrecciano e si richiamano, senza dare un messaggio preciso ma lasciando aperte le interpretazioni. È tra le esperienze più interessante che potete fare alla Biennale e vi consigliamo di non perdervelo.
Della mostra internazionale fanno parte altre due italiane: Ludovica Carbotta e Lara Favaretto, autrice di Thinking Head, una nuvola di nebbia che si alza e avvolge dal Padiglione Centrale, accompagnata da tavole rotonde in un bunker chiuso, che verranno trasmesse in streaming sul sito della Biennale e su www.thinking-head.net.
Sun Yuan e Peng Yu
Due delle opere di cui si è più parlato sono del duo di artisti cinesi Sun Yuan, nata nel 1972, e Peng Yu, del 1974. Can’t Help Myself, al Padiglione Centrale ai Giardini, è un robot industriale rinchiuso in una gabbia trasparente e intento a pulire da terra, senza successo, una vernice rossa che sembra sangue.
L’altra è un trono romano in silicone da cui spunta uno sferzante tubo di gomma, anche qui rinchiuso in una gabbia di vetro.
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Barca Nostra
È una delle installazioni più controverse, allestita all’Arsenale dall’artista svizzero-islandese Cristoph Büchel. È un barcone che affondò nel Canale di Sicilia il 18 aprile del 2015 causando la morte degli 800 migranti a bordo. Il Financial Times lo definisce la cosa «più silenziosa, spettrale, che ti resta in testa della città». Altri l’hanno ritenuta offensiva, altri ancora disturbante o stridente con l’atmosfera attorno.
I Padiglioni migliori
Il Padiglione della Francia
Si trova ai Giardini ed è realizzato dall’artista Laure Prouvost, che nel 2013 vinse il prestigioso Turner Prize. È considerato da quasi tutti, tra cui la critica del Guardian Laura Cumming, l’opera culminante della Biennale: «un omaggio originale al mare, con oceani di vetro, canzoni d’opera e performance dal vivo»; anche chi del Post l’ha visitata, è d’accordo. Per Harry Thorne di Frieze l’opera è come un polpo tentacolare «che testa le nozioni di fluidità, evasione dalla realtà e mistero». Il Padiglione mette insieme un intenso e suggestivo filmato di 20 minuti sul viaggio di Prouvost da Parigi a Venezia (che è il culmine del progetto), comparsate estemporanee dei suoi attori, oggetti e souvenir: anguille e un polpo scolpiti, telefonini rotti, gusci d’uovo fracassati e altri rifiuti su un pavimento di vetro verde che ricorda l’oceano. Sempre Cumming l’ha definita una versione contemporanea dell’Odissea di Omero e della Tempesta di Shakespeare.
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Il Padiglione del Belgio
Mondo Cane di Jos de Gruyter & Harald Thys, ai Giardini, ha vinto la menzione speciale per le partecipazioni nazionali: è una rassegna con bambole, automi, illustrazioni, zombie, che spaventano e rappresentano con umorismo l’orrore della figura umana.
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Il Padiglione del Regno Unito
Si trova nei Giardini ed è curato dall’artista di Belfast Cathy Wilkes. È una riflessione malinconica sulla perdita di rilevanza del Regno Unito, tra vasi di fiori con merletti strappati, manichini mezzi svestiti che spingono carrozzine, tazze abbandonate, pupazzi a terra, e una generale atmosfera di fine del mondo.
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Il Padiglione degli Stati Uniti
Si trova ai Giardini ed è è stato affidato al famoso scultore statunitense Martin Puryear (1941), il secondo afroamericano a rappresentare gli Stati Uniti alla Biennale. Si intitola Liberty ed è pieno di echi e riferimenti all’oppressione e alla liberazione nella storia, in particolare quella afroamericana. I critici sono stati generalmente un po’ delusi dalla selezione delle enormi sculture, ma su Instagram è piaciuto molto: dal rosso cappello frigio alla scultura monumentale fuori dal Padiglione, Swallowed Sun: un gigantesco intaglio in legno a forma di raggiera, da cui parte una coda di serpente che si arriccia al suolo.
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Il Padiglione della Svizzera
Sempre ai Giardini, Moving Backwards delle artiste Pauline Boudry e Renate Lorenz è un’installazione video che attraverso il tema della danza mette insieme coreografie postmoderne, tecniche di guerriglia, scontri di genere, elementi della cultura queer; i protagonisti del video camminano indossando le scarpe al contrario in una metafora del mondo contemporaneo, dove si fanno passi indietro pensando di progredire.
Il Padiglione del Ghana
È il primo mai realizzato dal Ghana, è tra i più apprezzati e si trova all’Arsenale. Si intitola Ghana Freedom, è curato da Nana Oforiatta Ayim e racconta, attraverso il lavoro di sei artisti di tre generazioni diverse, il desiderio e la lotta per la libertà del Paese, nato nel 1957. Sono piaciuti in particolare i quadri di Lynette Yiadom-Boakye, il film di John Akomfrah, e i ritratti in bianco e nero realizzati negli anni Sessanta da Felicia Abban, la prima fotografa professionista ghanese.
Altri Padiglioni
Sono piaciuti quello si Israele, che ha allestito una clinica in cui gli stessi spettatori possono farsi curare dai mali della società; dell’Islanda, che il Guardian ha definito «un’opera affascinante sulle saghe islandesi»; della Polonia, con l’opera Flight di Roman Stańczak, che consiste in un aereo privato sottosopra, con la cabina di pilotaggio sventrata; quello dell’India, piena di curiosità sul suo passato coloniale; quello della Georgia di Anna K.E., che è una raccolta di filmati di sue performance divertenti e dissacranti trasmessi su piccoli monitor; quello di Singapore di Song-Ming Ang, che racconta e prende in giro un programma di educazione sulla musica europea lanciato nelle scuole dal governo degli anni Settanta.
Artisti da non perdere
Nel Padiglione Centrale vale la pena cercare la ragnatela gigante dell’argentino Tomás Saraceno; le maschere di cartapesta delle tribù del Rajasthan dell’indiano Gauri Gill; il film Chimera del cipriota Haris Epaminonda; il corridoio di luci del giapponese Ryoji Ikeda (non perdetevi la sua ipnotica installazione data-verse all’Arsenale); le tele di vita quotidiana della nigeriana Njideka Akunyili Crosby; il video angosciante di Jon Rafman Disaster Under The Sun, gli autoritratti della fotografa Mari Katayama.
https://www.instagram.com/p/BxYBUe2BgTQ/
All’Arsenale ci sono molte installazioni video, tra cui 48 War Movies di Christian Marclay, un montaggio di scene di guerra dai film, Old Food di Ted Atkins e BLKNWS di Kahlil Joseph; si è parlato molto anche di For, In Your Tongue, I Cannot Fit dell’indiana Shilpa Gupta, che commemora 100 poeti imprigionati o giustiziati dal VII secolo a oggi: 100 microfoni che diffondono versi in russo, arabo, inglese, spagnolo e azero, sono sospesi su 100 punte di metallo, ognuna con un pezzo di carta con sopra il frammento di una poesia. Il 28enne lituano Augustas Serapinas, il più giovane artista della selezione, ha esposto “Vygintas, Kirilas & Semionovas” definita dal Financial Times la scultura più bella della mostra: «una rovina brutalista di blocchi di edifici presi da un’ex centrale nucleare in Lituania». La serie Angst del 30enne indiano Soham Gupta raccoglie ritratti monocromi notturni dei senzatetto di Calcutta, con un tono insieme documentaristico ed espressionista. Michael Armitage, 35enne britannico-kenyota, risponde al caos delle elezioni in Kenya del 2017 con scene carnevalesche e colorate, che si appropriano dei metodi di raffigurazione occidentali e coloniali per raccontare l’esperienza nera contemporanea; Nicole Eisenman fonde nei suoi larghi dipinti la grandezza del cosmo con la vita quotidiana.