Chi sta pagando la guerra commerciale
Per ora le imprese statunitensi più di quelle cinesi, dice un nuovo autorevole studio: e ieri l'annuncio di nuove tariffe ha causato la giornata peggiore da diversi mesi a Wall Street
Lunedì è stato il giorno peggiore da mesi a questa parte per Wall Street, la borsa americana, dopo gli ultimi sviluppi per quanto riguarda la guerra commerciale tra Stati Uniti e Cina: il governo di Pechino ha infatti annunciato l’aumento dei dazi su circa 60 miliardi di dollari di merci importate ogni anno dagli Stati Uniti, come risposta a una mossa simile arrivata la scorsa settimana dalla Casa Bianca. Il presidente statunitense Donald Trump aveva infatti annunciato venerdì nuovi dazi per circa 300 miliardi di dollari di importazioni annuali dalla Cina, una misura che aveva in parte spento le speranze che la guerra commerciale tra i due paesi fosse sulla via di risolversi.
Da diverse settimane, infatti, gli investitori preoccupati dalle tensioni tra Cina e Stati Uniti si erano relativamente tranquillizzati: la stabile crescita economica statunitense, le politiche monetarie favorevoli e l’apparente distensione della guerra commerciale – si parlava di un accordo imminente – avevano portato molti a ipotizzare un 2019 florido per la borsa. La giornata di ieri però ha portato nuove preoccupazioni: l’indice del Dow Jones ha perso il 2,4%, così come l’S&P 500, nella perdita più significativa dallo scorso 3 gennaio. Il Nasdaq ha perso il 3,4%, nella sua giornata peggiore da dicembre.
C’è da dire che l’S&P 500 e il Nasdaq sono comunque molto in rialzo rispetto al 2018, e i nuovi dazi imposti dalla Cina entreranno in vigore dal primo giugno, lasciando potenzialmente spazio per una soluzione di compromesso. Già l’anno scorso, poi, verso la fine di dicembre, c’era stato un grave momento di crisi della borsa dovuto alle preoccupazioni per la guerra commerciale tra Stati Uniti e Cina: il giorno prima di Natale gli indici avevano toccato il loro minimo da un paio d’anni, ma poi si erano ripresi velocemente.
Una soluzione non sembra però al momento vicina: Trump ha detto che incontrerà il presidente cinese Xi Jinping a fine giugno al G20 in Giappone, dicendo di aspettarsi molto dall’incontro. Intanto, però, nel nuovo giro di dazi una vasta gamma di prodotti provenienti dalla Cina, dagli smartphone ai computer ai giocattoli, vedrà le tariffe passare dal 10 al 25 per cento. Gli aumenti cinesi invece riguarderanno vari prodotti, molti dei quali alimentari, e porteranno i dazi al 10, 20 o 25 per cento, a seconda del prodotto, dal 5-10 per cento attuale.
Le società più colpite dal calo in borsa di lunedì sono state quelle dell’alta tecnologia, dell’agricoltura o della produzione di materie prime per componenti elettronici. In molti sono preoccupati che questa stretta porti paura e incertezza tra le grandi società, che potrebbero essere frenate rispetto al fare nuovi investimenti. Al momento l’economia statunitense cresce del 3,2 per cento all’anno, e ad aprile la disoccupazione è scesa al 3,6 per cento, il tasso più basso dal 1969.
Secondo gli analisti americani però, contrariamente a quanto sostiene Trump, il prezzo della guerra commerciale non sta ricadendo sulla Cina ma sugli americani. Chi paga concretamente quei dazi sono infatti gli importatori statunitensi, e questo si ripercuote sui costi per le aziende e i consumatori: uno studio pubblicato a marzo da un gruppo di economisti della Federal Reserve Bank of New York, della Princeton University e della Columbia University dice che i ricavi degli Stati Uniti sui dazi sono insufficienti a coprire le perdite dovute al calo di vendite dipeso dalle nuove tariffe. In tutto, secondo lo studio, consumatori e aziende devono pagare circa 3 miliardi di dollari in più al mese sulle importazioni.
Finora, infatti, il governo americano aveva lasciato fuori dai prodotti interessati dai dazi quelli più largamente consumati dai cittadini statunitensi, evitando così una manifestazione molto visibile dell’impatto delle tariffe. Il nuovo giro di dazi annunciato da Trump – che non è ancora definitivo, ma le cui pratiche burocratiche sono già state avviate – comprende però praticamente tutti i prodotti finora esclusi, dalle sneaker alle console per videogiochi. Secondo una stima di Morgan Stanley, i nuovi dazi potrebbero fare aumentare di 160 dollari il prezzo di un iPhone XS, che attualmente viene venduto a 999 dollari. Lunedì le azioni di Apple hanno perso il 5,8 per cento, il calo più drastico dal 2013. A fare le spese dei nuovi dazi, però, dovrebbero essere soprattutto le aziende più piccole che dipendono dalle importazioni cinesi, e che avranno più difficoltà ad ammortizzare i nuovi costi nei loro margini di guadagno più stretti.
Ad aprile il Fondo Monetario Internazionale ha abbassato la stima sulla crescita dell’economia globale al 3,3 per cento, che sarebbe la più bassa nell’ultimo decennio: tra le ragioni, ha citato le tensioni tra Cina e Stati Uniti, aggiungendo che ci si aspetta che il 70 per cento dell’economia globale rallenti nel 2019. Se i nuovi dazi entreranno in vigore, dicono gli analisti, questo rallentamento sarà ancora più rilevante. L’incertezza della borsa si è riflettuta lunedì anche su mercati finanziari diversi ma sensibili all’andamento dell’economia globale e degli scambi commerciali, come il rame e la soia.