La chiave di un colpo di stato
Secondo il New York Times sta nel creare l'impressione che sia inevitabile: e in Venezuela Guaidó non ci è riuscito
Questa settimana un tentativo di colpo di stato del leader dell’opposizione venezuelana Juan Guaidó per destituire il governo di Nicolas Maduro è fallito perché è mancato il sostegno della maggior parte dell’esercito. Martedì mattina Guaidó aveva tenuto un discorso per chiedere alle forze armate di unirsi alla causa che sta sostenendo ormai da mesi, fin da quando si autoproclamò presidente a gennaio: la giornata si è conclusa con le manifestazioni represse dalle forze ancora fedeli a Maduro e un discorso televisivo in cui Maduro stesso, circondato da generali e ministri, diceva di aver sconfitto i golpisti.
L’esercito venezuelano, ora, è apparentemente diviso: gli ultimi giorni hanno dimostrato che le più alte cariche siano, per ora, ancora dalla parte di Maduro, ma ci sono molti soldati e ufficiali più bassi in grado che sono passati dalla parte di Guaidó. Sul New York Times, il giornalista Max Fisher ha provato a dare una spiegazione a cosa sia mancato al colpo di stato venezuelano, paragonandolo ad altri avvenuti negli ultimi decenni.
Nel 1969 in Libia si parlò per mesi di un possibile colpo di stato, finché a settembre alcuni veicoli militari condotti da poche decine di soldati raggiunsero i palazzi governativi e quelli delle telecomunicazioni, annunciando la fine della monarchia. Nel giro di poco tempo, l’esercito sparso nel paese dedusse che dietro al golpe c’erano i più alti ufficiali delle forze armate, così come i governi stranieri che riconobbero la nuova leadership. Non ci furono morti né episodi di violenza, e una settimana dopo fece la sua comparsa Muʿammar Gheddafi, un 27enne capitano dell’esercito che aveva organizzato il golpe insieme a qualche altro giovane ufficiale di basso rango.
Ormai l’inerzia dietro al colpo di stato era troppo forte perché si potesse tornare indietro, e Gheddafi prese il potere scavalcando tutte le impotenti gerarchie militari. Per destituirlo ci sarebbe voluta una coesione tra le forze armate, la leadership politica e la popolazione che non si era formata nemmeno contro l’impopolare e logora monarchia. Gheddafi sarebbe rimasto al potere per 42 anni.
Uno degli ingredienti fondamentali perché un colpo di stato abbia successo, dice Fisher, è proprio il senso di inevitabilità, che fa sì che tutti quanti, dal popolo alle potenti élite di un paese, lo sostengano. In Libia si parlava da così tanto tempo dell’imminente colpo di stato che quando arrivò sembrò logico a tutti che i golpisti avrebbero avuto successo, e che quindi era meglio schierarsi con loro. In Venezuela, Guaidó sta provando da mesi a costruire queste condizioni, ma per ora non sembra esserci riuscito. In parte, secondo Naunihal Singh, un accademico britannico che ha scritto un libro sulla strategia dei colpi di stato, dipende dal fatto che ha affidato così tanta della sua comunicazione a Twitter invece che alle tv, un mezzo che attribuisce da subito più autorevolezza e influenza. Tradizionalmente, tra le prime cose che vengono prese di mira in un golpe sono gli uffici radiotelevisivi.
Ma il problema è stato anche nel contenuto della sua comunicazione, secondo Singh: «Non dici “possiamo vincere solo con il vostro sostegno”, ma dici “abbiamo già vinto”. Dando l’impressione di aver già vinto, ottieni l’appoggio di cui hai bisogno». Gli appelli di Guaidó all’esercito perché si unisse al suo movimento hanno dato l’impressione – corretta, hanno dimostrato i fatti – che la maggior parte delle forze armate stesse ancora con Maduro. In tanti, quindi, hanno probabilmente avuto timore a sostenere apertamente Guaidó, e Maduro è rimasto al suo posto.
C’è poi un altro aspetto che può determinare il successo o il fallimento di un colpo di stato, e ha poco a che fare con il sostegno dell’esercito e più con quello dei vari gruppi di potere di un paese. Anche se tendiamo a pensare che i colpi di stato si basino principalmente sull’uso della forza, in realtà, spiega Fisher, si verificano principalmente con il sostegno delle élite militari, politiche ed economiche di un paese. Sono loro che hanno la parola finale sul fatto se un leader resti o sia rovesciato. Ma per esercitare questo potere devono agire insieme, dice Singh.
Un esempio di cosa succede quando si prova un golpe senza sostegno delle élite è il colpo di stato fallito in Turchia nel 2016, che si concluse con decine di morti e migliaia di arresti. Inizialmente sembrava che grandi parti dell’esercito stessero sostenendo i golpisti, ma con il passare delle ore diventò chiaro che il loro sostegno non fosse vasto come poteva inizialmente sembrare e il governo riuscì a riprendere il controllo della situazione.
Secondo Fisher, da questo punto di vista, uno dei problemi di Guaidó potrebbe essere stato che in Venezuela le élite sono piuttosto frammentate, e quindi tenerle assieme è più difficile che in altri casi. «Anche se individualmente potrebbero stare meglio senza Maduro, non riescono a coordinarsi per creare quel necessario senso di inevitabilità».
E a questa difficoltà di unire le élite potrebbe anche aver contribuito il fatto che Guaidó sembra voler giocare su due tavoli diversi. Da una parte sta provando a conquistare l’appoggio popolare dando indizi sulle defezioni delle élite, e contemporaneamente vuole convincere le élite giocandosi la carta del consenso dei venezuelani. Ma quasi sempre gli interessi delle élite e della popolazione sono in contrasto: le prime solitamente vogliono preservare lo status quo, la seconda vuole cambiamenti radicali e più democrazia. E più democrazia può voler dire meno influenza per i grandi gruppi di potere di un paese e anche ridotti guadagni, per chi ha grossi interessi economici basati su distorsioni del mercato. La rimozione di Robert Mugabe in Zimbabwe nel 2017, o quella di Omar al Bashir in Sudan delle scorse settimane, sono classici esempi di élite che gestiscono la transizione di potere dopo le proteste popolari, cercando un modo di rimuovere il leader impopolare sostituendolo con qualcuno della propria cerchia, per evitare di perdere il reale controllo sul paese.
Dalla Seconda guerra mondiale a oggi, circa un colpo di stato su quattro ha portato all’instaurazione della democrazia. Secondo la ricercatrice della Iowa State University Amy Erica Smith, in Venezuela ci sono le condizioni perché il risultato del colpo di stato sia democratico: «c’è un regime autoritario screditato; una storia di resistenza popolare contro il regime, un’alleanza tra i politici democratici e l’esercito; una storia di competizioni elettorali». Ma ci sono anche ragioni endemiche che rendono difficile l’instaurazione della democrazia, spiega Fisher: «una popolazione divisa dalle élite, una profonda corruzione nell’esercito, e uno stallo tra le potenze straniere».