Sergio Leone raccontato da Sergio Leone

Alcune tra le frasi con cui il regista, morto trent'anni fa, parlò della sua vita e dei suoi film

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Sergio Leone era nato nel gennaio di novant’anni fa e morì trent’anni fa, il 30 aprile 1989. Figlio di un regista e di una attrice, frequentò sin da ragazzo il cinema: lo si vede in Ladri di biciclette, lavorò a Ben-Hur e poi fece il regista di soli sette film: cinque negli anni Sessanta, uno nei Settanta e uno negli Ottanta. Il primo fu una prova generale, gli altri sei sono divisi in due trilogie: del dollaro e del tempo. Quando morì aveva già in testa l’ottavo, che però non girò mai. Leone e i suoi film non vinsero premi a Cannes, Hollywood o Venezia e non tutti furono capiti al loro tempo.

Ma ora Leone è considerato uno dei più grandi registi italiani e uno dei più peculiari della storia del cinema. Per quei suoi western così diversi dagli altri, per i primi piani estremi, per i tempi dilatati, per le scene a ritmo di musica (e non viceversa), per gli stalli alla messicana, per i grandi silenzi, per alcune delle più grandi frasi della storia del cinema, per la profondità di certe trame, per la ritualità di certe attese e per la teatralità di certi momenti, per come reinventò quello che c’era stato prima e per il segno che ha lasciato su quello che è stato fatto dopo.

Leone è stato regista di Il colosso di Rodi; Per un pugno di dollari; Per qualche dollaro in più; Il buono, il brutto, il cattivo; C’era una volta il West; Giù la testa e C’era una volta in America. Il film che non riuscì a fare sarebbe stato sull’assedio di Leningrado. La sua vita e il suo cinema si possono raccontare in tanti modi: qui lo facciamo attraverso alcune frasi: sue e su di lui.

Leone nacque il 3 gennaio del ’29. Aveva davanti due sogni: quello neorealista, popolato di mondine e disoccupati, e quello americano, frequentato da gangster e cowboy.

Lo scrisse Tullio Kezich nell’articolo del Corriere della Sera pubblicato dopo la morte di Leone. Leone crebbe in mezzo al cinema perché il padre Vincenzo dirigeva film muti con lo pseudonimo Roberto Roberti e la madre Bice era un’attrice. Le cose da sapere su Leone nei suoi primi anni di vita sono che andò a scuola dai Salesiani con Ennio Morricone e che del periodo storico disse:

Mio padre è stato uno dei primi a iscriversi al Partito Fascista. Pagò la prima iscrizione e dopo dieci giorni vennero a dirgli che doveva pagarla di nuovo perché il segretario era scappato con la cassa. Da quel momento divenne antifascista.

Finito il fascismo e finita la guerra, Leone raccontò di aver guardato centinaia di film in giusto un paio di anni, mentre iniziava a fare l’assistente e poi l’aiuto regista nella Cinecittà degli anni Cinquanta, la migliore, perché era quasi «una piccola succursale di Hollywood».

Leone si fece le ossa nel cinema lavorando come assistente regista a Il trovatore, Il brigante Musolino, I tre corsari, La tratta delle bianche, Questa è la vita
La ladra. 
Si occupò di parte delle riprese di Quo vadis?, Elena di Troia, Ben-Hur e Sodoma e Gomorra. Diresse poi buona parte del film Gli ultimi giorni di Pompei, che risulta però essere un film di Mario Bonnard, un amico di famiglia. Infine, nel 1961, uscì il primo film unicamente di Sergio Leone: Il colosso di Rodi. Un peplum, come si chiamavano i film storici o biblici di quegli anni, con però alcune scene girate nella grande statua di bronzo, con passaggi segreti, trabocchetti e torture. Era uno di quei film mitologici che tanto andavano allora, ma a cui Leone non era per niente legato:

Non ho nessuna nostalgia dei mitologici. Ho fatto Il Colosso di Rodi per ragioni alimentari, per pagarmi il viaggio di nozze in Spagna.

Il Colosso di Rodi ha avuto successo tanto che poi dovetti rifiutare sei Maciste al giorno.

Il film andò bene e i produttori volevano che Leone rifacesse film simili. Ma lui invece capì che i peplum sarebbero presto passati di moda e si dedicò a un sottogenere diverso: il western all’italiana o spaghetti western. Non lo inventò, perché già si facevano, ma, come ha scritto Roberto Nepoti su Repubblica, ne «colse e distillò l’essenza». Riguardo al suo approccio generale a quei film, Leone disse:

Mi sembrava interessante demistificare questi aggettivi nell’ambientazione di un western. Un assassino può fare mostra di un sublime altruismo, mentre un buono è capace di uccidere con assoluta indifferenza. Una persona in apparenza bruttissima, quando la conosciamo meglio, può rivelarsi più valida di quanto sembra e capace di tenerezza. Incisa nella memoria avevo una vecchia canzone romana, una canzone che mi sembrava piena di buon senso comune: “È morto un cardinale che ha fatto bene e male. Il mal l’ha fatto bene e il ben l’ha fatto male”.

Per il suo primo spaghetti western, Per un pugno di dollari, Leone si ispirò a un film giapponese ed ebbe problemi legali, che però furono risolti. Parlandone disse:

Ebbi un processo per plagio dai giapponesi per La sfida dei samurai di Kurosawa, ma io aspettavo invece una chiamata in tribunale da Omero, perché fu a quel genere di epica che mi ispirai.

I personaggi di Omero sono gli archetipi degli eroi del West. Ettore, Achille, Agamennone non sono altro che gli sceriffi, i pistoleri e i fuorilegge dell’antichità.

Fu il primo film con le musiche di Ennio Morricone (Leone lo definì il suo sceneggiatore, più che il suo regista) e il primo con Clint Eastwood, protagonista di tre film di Leone e di una delle frasi più note:

Avevo bisogno più di una maschera che di un attore, ed Eastwood a quell’epoca aveva solo due espressioni: con il cappello e senza cappello.

Si racconta anche che quando Leone chiamò Eastwood per il film successivo, Per qualche dollaro in più, Eastwood rispose con entusiasmo ma chiese se, per favore, poteva non dover più fumare il sigaro in quasi tutte le scene. Leone gli disse che no, non poteva:

Clint, non possiamo tagliare fuori il sigaro. È il protagonista!

La trilogia del dollaro si chiuse nel 1966 con Il buono, il brutto, il cattivo: il film più divertente ed epico della trilogia del dollaro, pieno di grandi frasi e grandi momenti. Ma il momento migliore è senza dubbio la scena finale, che tra i suoi estimatori ha anche Quentin Tarantino (che si dice che sul set, quando vuole un primo piano particolarmente ravvicinato dica «datemi un Leone»):

Mi considero piuttosto bravo, so di poter migliorare col tempo e sono determinato a farlo, sino alla fine della mia carriera, per questo evito di girare un film l’anno. Eppure, per quanto mi sforzi, non credo che riuscirò mai a girare qualcosa di così perfetto come l’ultima sequenza di Il buono, il brutto, il cattivo.


Dopo aver girato un finale come quello di Il buono, il brutto, il cattivo, Leone voleva cambiare genere, ma finì per farne ancora uno, anche se molto diverso, e ne uscì quello che molto probabilmente è il suo miglior western: C’era una volta il West. Tra le tante cose sorprendenti del film c’è che Leone chiamò Henry Fonda – un grandissimo attore di western, che aveva quasi sempre fatto il buono – e gli fece fare uno spietato assassino. Fonda, sapendo che parte avrebbe interpretato si presentò sul set con basette, baffi e lenti a contatto per rendere neri i suoi occhi azzurrissimi. Lo fece perché pensava che un cattivo dovesse essere fatto in quel modo. Leone gli tolse tutto e raccontò in seguito di aver detto:

I vicepresidenti delle società con cui ho avuto a che fare hanno tutti gli occhi cerulei e l’aria onesta e invece sono certi figli di puttana.

Leone diresse poi Giù la testache è un film di guerra e rivoluzione: non, come spiegò lo stesso Leone, un western.


Nel 1984, più di dieci anni dopo Giù la testa, Leone diresse il suo film più imponente e ambizioso: C’era una volta in America, un film di gangster con Robert De Niro. Di cui Leone parlò così, paragonandolo a Eastwood:

Robert De Niro si butta nel film e nel ruolo assumendo la personalità del personaggio con la stessa naturalezza con cui uno potrebbe infilare un cappotto, mentre Clint Eastwood indossa un’armatura e abbassa la visiera con uno scatto rugginoso. Bobby, prima di tutto, è un attore. Clint, prima di tutto, è un divo. Bobby soffre, Clint sbadiglia.

Di Leone, Eastwood ha detto, con grande sintesi, che «era provvisto in egual misura di un grande senso dell’umorismo e di una tendenza alla visionarietà». Il regista Bernardo Bertolucci ha invece detto che, secondo lui, «Leone era un talento purissimo nella messa in scena: cioè il rapporto che c’è tra le cineprese, i corpi delle persone e il paesaggio». Tullio Kezich, nel suo articolo sul Corriere dopo la morte di Leone, ne parlò invece così:

Sposando un mito personale che implicava la vocazione allo smisurato, Sergio Leone si impedì di «fare il cinema» come pratica quotidiana. Tante volte, nelle more del suo nuovo gigantesco progetto sull’assedio di Leningrado, confessa ai cronisti il suo desiderio di fare un film piccolo, una cosa cotta e mangiata. E noi l’incoraggiavamo, certi che avrebbe potuto fare un film con un uomo davanti a un muro, restando un grande cineasta.

Nel suo dizionario critico del cinema, Richard Corliss, provò a spiegare così l’universo dei film di Leone:

Un misto di contraddizioni inconciliabili: trame labirintiche e temi elementari, eroi nichilisti con ossessioni romantiche, primi piani microscopici e vedute macroscopiche, movimenti circolari e sparatorie triangolari, un po’ di America e una sensibilità europea, giocose parodie e omaggi profondi.

Più semplicemente, Leone parlò del suo cinema parlando di bambini e di una famosa scalinata di Trastevere, a Roma:

Il mio modo di vedere le cose talvolta è ingenuo, un po’ infantile ma sincero, come i bambini della scalinata di viale Glorioso.