Il basket femminile americano ha un grosso problema
Nella WNBA, la lega più importante, gli stipendi sono molto bassi e le atlete scelgono spesso di giocare all'estero nelle pause stagionali
La scorsa settimana Breanna Stewart, giocatrice statunitense della WNBA, la più importante lega professionistica di basket femminile nordamericana, si è rotta il tendine d’Achille cadendo sul piede di un’avversaria, un tipo di infortunio piuttosto comune nel basket. Stewart ha 24 anni ed è una delle più forti e talentuose cestiste del mondo: secondo molti la più forte. La scorsa stagione vinse il titolo di MVP (cioè di miglior giocatrice, più o meno) della stagione regolare e delle finali con i Seattle Storm, squadra con cui vinse anche il titolo WNBA. L’infortunio la costringerà però a saltare tutta la prossima stagione, che comincia il 24 maggio.
Quando si è infortunata, però, Stewart non stava giocando negli Stati Uniti, ma in Ungheria, in una partita di Eurolega con la squadra russa della Dynamo Kursk.
Quella di giocare all’estero tra una stagione e l’altra è una pratica molto diffusa tra le atlete del basket americano, a causa dei loro bassi stipendi: nell’ultima stagione lo stipendio medio è stato inferiore agli 80mila dollari all’anno, e nella prossima nessuna giocatrice guadagnerà più di 120mila dollari. Molte squadre europee o asiatiche, prive della maggior parte dei rigidi vincoli contrattuali delle squadre americane, sono ben felici di offrire contratti temporanei alle atlete nordamericane per averle in squadra nei periodi in cui non si gioca negli Stati Uniti. Questo però comporta per molte giocatrici stagioni che durano praticamente tutto l’anno, esponendole a rischiosi affaticamenti e a una quantità maggiore di infortuni, com’è successo a Stewart. Alla lunga, è un’abitudine che può accorciare significativamente le carriere delle atlete.
Il funzionamento degli stipendi nello sport americano è spesso complicato, ma per fare un paragone nella NBA, l’equivalente maschile della WNBA, anche i giocatori che quasi nemmeno finiscono in panchina sono pagati oltre 300mila euro all’anno.
È naturalmente una questione di giro d’affari: per quanto in crescita e seguita in tutto il mondo, la WNBA genera una quantità di soldi molto inferiore a quella prodotta dalla NBA. Il problema, sostengono però molte atlete, è un altro. Per come funziona il sistema economico che regola la NBA, gli stipendi dei giocatori dipendono dagli incassi totali della lega: l’attuale contratto collettivo prevede che la NBA distribuisca il 50 per cento dei suoi ricavi negli stipendi dei suoi oltre 400 giocatori. Questa percentuale è inferiore al 20 per cento nella WNBA, nella quale giocano 144 atlete. Secondo Forbes, una stima conservativa dei ricavi annui della WNBA è di circa 60 milioni di dollari: destinarne la metà alle atlete farebbe più che raddoppiare gli stipendi.
Secondo ESPN, Stewart ha ricevuto lo scorso anno uno stipendio base inferiore ai 57mila dollari, a cui ha ne ha sommati circa 40mila di bonus per i vari titoli vinti. Da quando è nella WNBA, ha giocato 111 partite con i Seattle Storm, 58 con una squadra cinese e 18 con quella russa. L’anno scorso ha pure giocato, e vinto, il Mondiale con gli Stati Uniti.
Victoria Vivians, guardia degli Indiana Fever scelta al primo giro dell’ultimo draft – l’evento annuale con cui vengono scelti i giocatori dal college e dall’estero – ha avuto un destino simile a quello di Stewart. Poche settimane fa si è infortunata al legamento crociato giocando in Israele, e salterà a sua volta l’intera stagione. Amanda Zahui, centro svedese dei New York Liberty, si è distorta la caviglia giocando con una squadra ungherese. A’ja Wilson, migliore matricola della stagione 2018, si è procurata un infortunio a un ginocchio giocando in Cina. È un problema diffuso e noto, che sta avendo ulteriore visibilità come conseguenza collaterale dell’infortunio di Stewart. Ed è un dibattito arrivato con un buon tempismo, visto che l’associazione che tutela i diritti sindacali delle giocatrici sta trattando il prossimo contratto collettivo, che dovrà essere perfezionato entro la fine della prossima stagione.
È la stessa WNBA ad avere interesse a limitare la pratica delle giocatrici che si prestano temporaneamente alle squadre straniere, visto che proprio i possibili infortuni rischiano di privare la lega di alcune delle atlete più famose e seguite, come successo con Stewart. Le squadre, poi, potrebbero sfruttare le giocatrici per promuoversi nei mesi in cui non è in corso la stagione. Mark Tatum, vice capo della NBA e dallo scorso ottobre capo ad interim della WNBA, dopo le dimissioni di Lisa Borders, ha detto al New York Times che la lega condivide l’impegno per garantire «maggiori opportunità professionali per i giocatori nelle pause tra le stagioni».
Terri Jackson, a capo dell’associazione sindacale dei giocatori, ha confermato la disponibilità della lega a cambiare le cose, dicendosi ottimista per il futuro. Anche la giornalista Mechelle Voepel di ESPN ha scritto che le condizioni sembrano favorevoli perché cambi qualcosa nel prossimo contratto collettivo, anche se difficilmente non ci saranno più giocatrici che si presteranno a una massacrante stagione intercontinentale per sopperire al basso stipendio.
Tra le possibilità per risolvere il problema però non c’è solo un aumento della percentuale di guadagni riservata agli stipendi, ma anche la modifica di alcuni regolamenti contrattuali che attualmente rendono poco remunerativo per le giocatrici unirsi agli staff tecnici delle squadre di NBA nelle pause stagionali. Il New York Times ha fatto l’esempio di Kristi Toliver dei Washington Mystics, che questa stagione lo ha fatto per soli 10mila dollari. Oppure, ipotizza Voepel, la stagione regolare di WNBA potrebbe essere allungata rispetto alle attuali 34 partite (esclusi i playoff), molte meno delle 82 della lega maschile.