La storia di The Jinx non è come ce l’hanno raccontata?
Gli autori del documentario sono accusati di avere manipolato la confessione finale del membro di una ricchissima famiglia newyorkese accusato di due omicidi e della scomparsa di sua moglie
Dalle prossime righe vi troverete davanti a diversi SPOILER di una delle serie investigative più apprezzate degli ultimi anni: siete avvertiti.
Alla fine dell’ultimo episodio della serie del 2015 The Jinx, il protagonista, l’ereditiere milionario Robert Durst, viene messo di fronte a quella che sembra una prova schiacciante della sua colpevolezza per un delitto avvenuto 15 anni prima. Di fronte alle telecamere, Durst nega il suo coinvolgimento, ma pochi minuti dopo, mentre si trova in bagno e apparentemente non si rende conto di aver il microfono ancora addosso, confessa i suoi crimini. «Che cosa diavolo ho fatto?», si domanda e dopo una decina di secondi si sente di nuovo la sua voce: «Li ho uccisi tutti, ovviamente».
Gli ultimi minuti della serie, andati in onda la sera del 15 marzo 2015, entrarono nella storia della televisione, scrissero all’epoca i giornali. (La raccontammo qui più estesamente.) La sera prima della messa in onda, la polizia aveva arrestato Durst e – anche se la circostanza è stata negata da tutti – sono in molti a sospettare che gli autori del documentario, guidati dal regista Andrew Jarecki, si fossero accordati con la polizia e la magistratura per far coincidere i due eventi. La serie è diventata subito un classico del genere “true crime”, quello che racconta di crimini realmente avvenuti, e non soltanto per le sue ottime qualità cinematografiche. Come ha scritto questa settimana il New York Times, capita spesso che i documentari dedicati al crimine si occupino di innocenti ingiustamente detenuti: molto più raramente aiutano a imprigionare colpevoli che sono riusciti a farla franca.
Il problema, come ha raccontato tra gli altri il New York Times, è che con l’inizio del processo contro Durst, si è scoperto che le frasi pronunciate in bagno furono tagliate e rimontate così da farle apparire molto più compromettenti di come fossero in realtà. La scoperta è stata subito sfruttata dagli avvocati difensori di Durst e, insieme alle altre più o meno piccole manipolazioni del documentario, ha prodotto un ampio dibattito tra giornalisti e autori su cosa significhi davvero “raccontare la verità”.
Le frasi incriminate che la difesa di Durst definisce “manipolazioni” sono solo una parte di quanto scoperto dagli autori della serie The Jinx. La storia inizia nel 1982, quando Kathie McCormack, la moglie con cui Durst all’epoca aveva un rapporto difficile, scomparve senza lasciare traccia. Durst fu il primo sospettato per gli omicidi, la storia fece il giro del mondo, ma, dopo aver trascorso mesi sulle prime pagine dei giornali scandalistici, la sua posizione venne archiviata. Diciotto anni dopo, Susan Berman, la sua migliore amica e confidente, fu trovata uccisa con un colpo di pistola alla nuca nel suo appartamento vicino a Los Angeles. Pochi giorni prima la procura di New York aveva annunciato la sua intenzione di riaprire il caso McCormack. Durst fu sospettato ancora una volta, ma non venne incriminato.
All’epoca si era trasferito nella cittadina di Galveston, in Texas, dove viveva sotto falso nome, travestito e fingendosi un’anziana signora muta. Dieci mesi dopo l’omicidio Berman, alcune parti del corpo del suo dirimpettaio, Morris Black, furono ritrovate nella baia di Galveston. Durst fu allora arrestato e processato. Ammise di aver fatto a pezzi il corpo di Morris Black e di averlo gettato in mare, ma disse che la morte dell’uomo era avvenuta per legittima difesa, quando un colpo della sua pistola era partito accidentalmente durante uno scontro fisico. Nel 2003 Durst fu assolto dalla giuria.
Nel frattempo, il regista Jarecki e il suo collaboratore Marc Smerling avevano sviluppato una vera e propria passione per il caso, accumulando nel loro ufficio di New York centinaia di documenti, interviste e altro materiale proveniente dalle indagini e dai processi a carico di Durst. Nel 2010 utilizzarono questo materiale per girare un film ispirato alla vicenda, Love & Secrets, con Ryan Gosling nei panni di Robert Durst (il titolo originale del film è All good things). Dopo l’uscita del film, Durst contattò Jarecki e insieme i due parlarono della possibilità di intervistarlo per avere la sua versione dei fatti.
L’intervista, svolta contro il consiglio dell’avvocato di Durst, durò diversi giorni e Durst fece alcune ammissioni che non aveva mai fatto prima. Ad esempio, disse che nel 1981, poco prima della sparizione di sua moglie Kathie, il loro rapporto fosse oramai deteriorato. Si verificavano regolarmente «litigate» in cui si scambiavano «schiaffi e spinte».
Poco tempo dopo Jarecki e Smerling fecero una scoperta ancora più importante. Il figliastro di Berman consegnò loro la busta di una lettera inviata da Durst alla sua amica poco tempo prima che fosse uccisa. L’intestazione della lettera era scritta con una grafia particolare e l’indirizzo conteneva un errore: era scritto “Beverley Hills”, al posto di “Beverly Hills”. La stessa grafia e lo stesso errore erano presenti nella lettera anonima con cui nel 2000 la polizia era stata avvertita della presenza di un cadavere nella casa di Berman.
L’ultimo episodio della serie ruota intorno al tentativo di Jarecki e Smerling di ottenere una seconda intervista con Durst in modo da metterlo di fronte alla nuova prova. Dopo 16 mesi di tentativi i due riescono finalmente a ottenere una seconda intervista che si svolge in una stanza d’albergo di New York. Messo di fronte alle fotografie delle due buste, Durst si mostra nervoso, ma non ammette nulla. Almeno fino a quando l’intervista si conclude e lui raggiunge il bagno, con addosso il microfono ancora acceso.
«Ecco qui, ti hanno preso», sono le sue prime parole che si sentono in sottofondo, mentre la telecamera continua a inquadrare la stanza oramai deserta dove si è svolta l’intervista. Il suo soliloquio dura per altri sette minuti, ma nella trascrizione ottenuta dal tribunale le parole sono in un ordine diverso da quello che compare nella serie. La domanda: «Che cosa diavolo ho fatto?» è in realtà una delle ultime frasi pronunciate da Durst e quella che la serie fa sembrare la risposta a questa frase – «Li ho uccisi tutti naturalmente» – viene detta molto prima.
Oggi gli avvocati di Durst sostengono che il montaggio abbia distorto le parole di Durst e che l’intero documentario sia semplice «show business», senza nessuna reale intenzione di scoprire la verità. A dimostrarlo, accusano, ci sarebbe anche l’accordo fatto tra i registi della serie e la polizia, per far arrestare Durst alla vigilia della messa in onda dell’ultimo episodio. Non sono le uniche accuse ricevute dalla serie per aver trattato la verità storica con troppa leggerezza rispetto alle esigenze dello spettacolo.
Dopo la messa in onda dell’ultimo episodio diversi giornalisti che seguivano la vicenda di Durst hanno messo in dubbio la sequenza cronologica di una serie di avvenimenti mostrati. In risposta al crescente numero di domande, Jarecki e il suo staff hanno preferito annullare numerose interviste e hanno smesso di rispondere alle domande relative alla serie. Il loro avvocato ha fatto sapere che si tratta di una forma di autotutela, visto che potrebbero essere chiamati a testimoniare nel processo contro Durst.
Altre critiche riguardano come Jarecki e gli altri abbiano gestito le prove nei confronti di Durst: la lettera con l’errore di ortografia e la registrazione in bagno dopo la seconda intervista. Nel caso di quest’ultima, Jarecki sostiene che il suo staff si fosse accorto che Durst aveva continuato a parlare anche mentre si trovava in bagno soltanto alla fine del 2014, due anni dopo aver registrato l’intervista. Nel caso della lettera, sostengono di averne informato la polizia non appena ne sono venuti in possesso. Il loro avvocato afferma che tutto lo staff ha sempre avuto come primo obiettivo proteggere eventuali indagini e aiutare gli investigatori.
Oggi però non sono in molti ad essere del tutto d’accordo con queste affermazioni. Rick Goldsmith, noto regista di documentari, ha detto di non essere a proprio agio con il metodo di lavoro adottato da Jarecki, in particolare con le scelte di montaggio dell’ultima sequenza. «Il montaggio è problematico», sostiene Mark J. Harris, un vincitore di Oscar e docente alla University of Southern California (dove tra gli altri ha insegnato a Smerling, il collaboratore di Jarecki). «Hanno sistemato le frasi della trascrizione in un modo che sembra condannarlo, ma il testo è molto più ambiguo nella trascrizione». Marcia Rock, che si occupa di documentari al Carter Journalism Institute della New York University, ha detto che tutti i documentaristi fanno montaggio e tolgono od omettono elementi dalle loro storie: «La vera prova è vedere se dopo che lo hai fatto stai continuando a dire la verità o se la stai manipolando».
Per gli avvocati di Durst la risposta è chiara: quella compiuta nella serie è una manipolazione fatta per incastrare il loro cliente. Secondo il New York Times la loro strategia per il processo è chiara: eliminare dalla giuria tutti gli spettatori di The Jinx, in particolare quelli che sono rimasti influenzati da ciò che hanno visto.