Di che colore è il burro
Direste bianco o giallo? E qual è quello più buono? E che si fa con i coloranti?
È probabile che secondo molti di voi il burro sia bianco o al massimo giallino, ma quello più naturale e più buono si avvicina al giallo. Lo stesso discorso vale anche per il latte: la varietà migliore non è candida ma tendente al giallino. Questo perché il colore del burro e del latte vaccino dipende da quello che mangiano le mucche.
Le mucche che pascolano nei prati, e si nutrono di erba e fiori, ne assumono i betacaroteni: pigmenti gialli-arancioni che fungono da antiossidanti e sono una fonte di vitamina A, che fa bene alla pelle e alla vista. Le mucche immagazzinano il betacarotene nei tessuti adiposi, nel fegato e in parte nei globuli di grasso del latte e quindi del burro, che essendo più ricco di grassi (ne deve contenere almeno l’80 per cento) sarà più ricco di betacarotene e quindi più colorato. L’erba, grazie alla presenza di Omega 3, migliora anche la consistenza del burro rendendolo più soffice e facile da spalmare.
Le mucche che invece non sono libere di pascolare ma vengono nutrite con fieno, grano o mais – alimenti più poveri di betacarotene – producono un latte (e quindi un burro) più biancastro. Questo discorso vale anche per le mucche dei pascoli che durante l’inverno restano al chiuso, e anziché di erba si nutrono di fieno: lo stesso esemplare quindi può produrre burro più o meno colorato a seconda del periodo dell’anno.
Questa oscillazione è uno dei motivi per cui il burro è stato tra i primi alimenti a venire colorati nel corso del tempo. Le prime attestazioni risalgono al XIV secolo: gli allevatori tingevano di giallo il burro invernale per rendere il colore uniforme e dare l’impressione che fosse più buono. Se ne parla soprattutto nei tentativi di regolamentare l’uso dei coloranti – come quelli sotto il regno del re inglese Edoardo I (1272-1307) – nati per limitare i casi di contadini morti avvelenati da pane sbiancato con calce, gesso e ossa triturate, per farlo assomigliare a quello raffinato e caro dei banchetti dei più ricchi.
Nel 1396 un editto francese vietò di colorare il burro e nel 1574 una legge francese proibì la colorazione di dolci per simulare la presenza di uova. La situazione peggiorò a fine Settecento, quando la nascente industria chimica introdusse nuovi coloranti. A inizio Ottocento i coloranti non erano più realizzati dagli allevatori ma fabbricati da produttori specializzati, che potevano servirsi di varianti chimiche o naturali, come l’annatto, che deriva dal carotene estratto dai semi della Bixa orellana, una pianta che cresce nelle zone tropicali in America Centrale e in Sud America. L’industria casearia li inserì anche nei formaggi, come per esempio il cheddar, e finì per standardizzare il colore del burro: sempre lo stesso, in ogni momento dell’anno.
Un capitolo della storia del colore del burro è occupato dalla cosiddetta guerra della margarina, un’emulsione grassa di origine vegetale. Negli Stati Uniti l’industria casearia si oppose alla sua introduzione, avvenuta nel 1874, e la maggior parte degli Stati vietò che venisse colorata artificialmente di giallo per renderla simile al burro, considerandola una forma di inganno ai consumatori. Alcuni proposero di colorarla obbligatoriamente di rosso o di nero e cinque Stati obbligarono a colorarla di rosa, forse per limitarne il consumo: le mucche con la mastite infatti producono una sorta di latte rosa.
Negli ultimi tempi l’attenzione per i cibi naturali e non trattati ha portato gli chef e anche le persone più comuni ad associare il colore giallo a una migliore qualità del burro. Il bianco quasi candido dei panetti industriali è diventato indicatore di poco sapore e bassa qualità, e per questo alcune aziende hanno iniziato a colorarli: per sapere se il vostro burro è giallo o è stato “giallificato” basta controllare l’etichetta, dove saranno segnalati eventuali coloranti.