I primi disastrosi 100 giorni di Bolsonaro
Il suo governo è diviso e rissoso, non ha una maggioranza in Parlamento e ha il livello di gradimento più basso di qualsiasi presidente del Brasile a questo punto del suo mandato
Pochi giorni fa, tentando di scherzare sulle numerose difficoltà incontrate nei primi mesi trascorsi al governo, il nuovo presidente brasiliano Jair Bolsonaro ha detto in un discorso dalla sua residenza ufficiale a Brasilia: «Sono nato per fare il soldato, non il presidente». In effetti in poco più di tre mesi Bolsonaro di battaglie ne ha combattute parecchie: il problema è che non è riuscito a vincerne quasi nessuna, come ha raccontato il New York Times in un reportage dedicato ai suoi primi 100 giorni da presidente.
Eletto lo scorso ottobre, Bolsonaro si è insediato lo scorso gennaio. È considerato un estremista di destra, con opinioni controverse e spesso violente sulle persone LGBT, sul ruolo della donna, sui diritti delle popolazioni indigene del Brasile, delle minoranze e delle persone di colore. È inoltre un sostenitore della dittatura militare che ha governato il paese fino agli anni Ottanta. Nonostante la sua vittoria abbia generato molte aspettative tra i brasiliani bianchi e nella classe media, Bolsonaro non è ancora riuscito a far approvare nessuna delle principali riforme promesse in campagna elettorale.
Ha già perso due ministri del suo governo, mentre i suoi principali alleati si scontrano di continuo tra di loro. Nel frattempo il suo partito è stato coinvolto in un’inchiesta su presunti finanziamenti illegali, mentre suo figlio (che è anche senatore) è indagato per corruzione. I suoi successi sono piuttosto limitati, per ora: è riuscito a semplificare l’acquisto di armi e lo sfruttamento della foresta amazzonica da parte delle grandi società, e ha migliorato le relazioni con gli Stati Uniti. La sua popolarità non ne ha beneficiato molto. Dall’insediamento a oggi il livello di approvazione del suo operato è precipitato di quasi 20 punti e al momento oscilla intorno al 50 per cento, il livello più basso per un presidente brasiliano all’inizio del suo mandato da quando negli anni Ottanta fu ripristinata la democrazia.
Secondo il New York Times, il principale fallimento di Bolsonaro fino a questo momento è stata la sua incapacità di far approvare una dura riforma delle pensioni in grado di ridurre i benefici che in certi casi permettono ai brasiliani di andare in pensione prima dei 50 anni. Il sistema pensionistico del paese è considerato da molti insostenibile per il bilancio pubblico, e Bolsonaro aveva annunciato che riformarlo sarebbe stata la sua prima priorità. In base al nuovo piano, l’età di pensionamento sarà alzata per gran parte dei brasiliani fino a 65 anni per i maschi e fino a 62 per le femmine.
La riforma però non è molto popolare e l’opposizione ha subito accusato Bolsonaro di voler penalizzare i brasiliani più poveri. Il partito di Bolsonaro conta al Congresso appena una cinquantina di parlamentari sui quasi seicento membri che compongono Camera e Senato. Per far passare la legge ha quindi bisogno di costruire una vasta coalizione, ma con il suo carattere imprevedibile – è famoso per i suoi sfoghi violenti e intolleranti – Bolsonaro non è il politico più abile nel tessere relazioni (giusto per fare un paio di esempi: nelle ultime settimane Bolsonaro ha postato su Twitter un video erotico ed esplicito e ha invitato i militari a celebrare il golpe del 1964).
Il risultato di questa sua tendenza a farsi terra bruciata intorno è che durante la discussione della riforma Bolsonaro è stato attaccato non solo dall’opposizione, ma anche da alcuni dei suoi recenti alleati. Per ora la riforma delle pensioni e quella della giustizia rimangono a languire nelle commissioni parlamentari, senza prospettive di potere essere approvate in breve tempo.
Tra i numerosi alleati delusi da Bolsonaro, il New York Times ha intervistato Kim Kataguiri, un giovane deputato del partito liberale di centrodestra DEM, che come molti altri politici e opinionisti pro-business ha appoggiato Bolsonaro con entusiasmo durante la campagna elettorale. Nonostante siano passati solo tre mesi dal suo insediamento, Kataguiri dice di essere profondamente deluso dal nuovo presidente e dalla sua incapacità di ottenere risultati in campo economico, in particolare sui tagli alla spesa pubblica che secondo lui sono necessari a tenere in ordine i conti del paese.
Nel frattempo il governo Bolsonaro ha già perso due ministri, tra cui quello dell’Istruzione, Ricardo Vélez, definito dal New York Times un «semisconosciuto accademico ultraconservatore». Vélez aveva detto in un’intervista che i brasiliani che viaggiano all’estero si comportano come «cannibali», rubando dagli alberghi e persino dagli aeroplani su cui viaggiano. Poco prima di essere cacciato, Vélez aveva inviato una lettera alle scuole chiedendo agli insegnanti di leggere ai propri alunni un proclama politico di Bolsonaro dopo l’esecuzione dell’inno nazionale.
Vélez, insieme al ministro degli Esteri (responsabile di una gaffe mentre era in visita al Museo dell’Olocausto in Israele), è stato suggerito a Bolsonaro da Olavo de Carvalho, uno scrittore complottista tra più accesi sostenitori del presidente, una sorta di versione brasiliana di Steve Bannon, l’editore e stratega di estrema destra che fu per breve tempo consigliere di Donald Trump. In maniera non molto diversa da come accadde con Bannon, anche Carvalho è rapidamente diventato un problema per Bolsonaro, contribuendo a dividere ulteriormente il campo dei suoi sostenitori. Per esempio ha attaccato duramente gli otto ex generali che Bolsonaro ha scelto come suoi ministri, definendoli «nemici dello stato».
Il risultato di queste dichiarazioni e di questi continui scontri interni, conclude il New York Times, è che in questi cento giorni frenetici, i militari sono stati visti sempre più spesso come una forza moderata e stabilizzatrice in un governo altrimenti incontrollabile. Augusto Heleno Ribeiro, ex generale e attuale capo di gabinetto del presidente per le questioni legate alla sicurezza, ha detto che i militari brasiliani si meritano questa reputazione: «Il nostro stile è conciliatorio, non incendiario. Perché sappiamo bene quali sono i pericoli dell’estremismo».