Come si smonta una centrale nucleare
Quella di Trino Vercellese fu tra le prime costruite al mondo, nel 1961: ma nessuno pensò che un giorno avrebbe dovuto essere demolita
In Italia ci sono ancora quattro centrali nucleari. Sono ferme dal 1987, quando con un referendum fu deciso di chiuderle, ma ancora oggi in ognuna di esse lavorano decine di persone e sarà così ancora per molti anni. Le centrali nucleari italiane non producono più energia, ma sono ancora posti potenzialmente pericolosi, dove si ha a che fare con rifiuti radioattivi prodotti in anni di attività, con le molte difficoltà di smaltirli e con la complessità di smantellare tutto quello che per un certo periodo era sembrato il futuro per la produzione di energia elettrica. E sono posti che, occasionalmente, si possono visitare, superando i fili spinati e le guardie armate che le sorvegliano giorno e notte: dal 2015 Sogin, la società pubblica che ne è proprietaria, organizza ciclicamente visite guidate per far conoscere la sua storia e quella del nucleare in Italia.
La centrale nucleare Enrico Fermi di Trino Vercellese, in Piemonte, fu costruita tra il 1961 e il 1964, l’anno in cui entrò in funzione. Quando fu progettata e realizzata, nel resto del mondo erano state costruite solo una manciata di altre centrali nucleari. La prima produzione di energia elettrica dal nucleare – che aveva permesso di accendere alcune lampadine – era stata sperimentata 10 anni prima, mentre la prima centrale elettronucleare commerciale entrò in funzione solo nel 1954. Insomma, la centrale di Trino fu costruita quando l’energia elettrica nucleare era una cosa molto nuova.
Nonostante la relativa inesperienza nella costruzione di centrali nucleari, e nonostante in Italia non ne fossero mai state fatte prima, il progetto della centrale di Trino è ancora considerato per molti versi un buon progetto. Il tipo di reattore che fu usato – ad acqua pressurizzata, o PWR – è oggi il più diffuso nei nuovi impianti, mentre i sistemi di sicurezza, come l’enorme guscio di acciaio che circonda tutto l’impianto, sono quelli che vengono ora considerati essenziali e che negli anni hanno permesso di evitare enormi disastri in altre centrali nucleari, come quella di Three Mile Island, negli Stati Uniti. La centrale di Trino, inoltre, funzionava bene e per alcuni anni ebbe il record per il più lungo utilizzo del reattore senza interruzioni.
Una cosa che non fu tenuta in conto nella progettazione della centrale, però, fu come sarebbe stata smontata. La possibilità, in quegli anni, non fu nemmeno presa in considerazione: per quanto si sapesse che la centrale non sarebbe durata per sempre – anche senza referendum, avrebbe cessato di funzionare nei primi anni Novanta – fu progettata e assemblata come se avesse dovuto farlo. Quindi quando nei primi anni Novanta l’Italia decise che non sarebbe mai più tornata ad usare i suoi impianti nucleari, la centrale di Trino presentava una complicazione in più: non solo bisognava smaltire il combustibile nucleare e il resto dei rifiuti radioattivi, bisognava anche inventarsi un modo per smontare la centrale stessa.
Da allora, la storia della centrale di Trino è la storia del cosiddetto decommissioning: il progetto per il suo smantellamento, che è ancora in corso e che dovrebbe completarsi nel 2030. Secondo i progetti, dove oggi c’è la centrale, sulla riva vercellese del Po, dovrebbe tornare a esserci un prato, 70 anni dopo la sua costruzione. I lavori per arrivare a quel punto sono in corso da tanti anni e prevedono fasi successive di smantellamento delle strutture e dei rifiuti radioattivi a bassa pericolosità, la cui produzione è in parte collegata alle operazioni di smantellamento stesse (i materiali che sono entrati a contatto con elementi radioattivi, per esempio, non possono essere smaltiti come rifiuti comuni, per quanto siano oggi molto poco pericolosi).
Le prime parti della centrale a essere smantellate sono state quelle legate al ciclo non nucleare di produzione dell’energia elettrica, quindi le turbine e gli impianti di raffreddamento dell’acqua che – sotto forma di vapore – le faceva girare. Quello che resta da smontare, invece, è il reattore nucleare e tutta l’enorme struttura che gli sta intorno: e sono le parti più complicate da toccare, perché sono quelle che per anni sono state più a contatto con il combustibile radioattivo.
Le circa settanta persone che ancora lavorano alla centrale di Trino si occupano in gran parte di questo, oggi. Ogni cosa che deve essere smontata va prima analizzata e catalogata, stoccata nel modo più corretto e sicuro e poi preparata per il trasporto nei centri di lavorazione o smaltimento. E la stessa cosa va fatta per i rifiuti nucleari che erano stati prodotti prima della chiusura della centrale e che si trovavano ancora lì quando iniziò il decommissioning: vanno analizzati, catalogati, divisi e messi in nuovi e più sicuri contenitori in vista del loro smaltimento. E tutto questo andrà avanti per anni, perché è un lavoro lungo e meticoloso e perché per ora non è ancora stato deciso dove verranno portati tutti questi rifiuti nucleari: è il cosiddetto “deposito nazionale” delle scorie nucleari, di cui si parla spesso sui giornali.
E poi bisognerà occuparsi della cosa più radioattiva e pericolosa di quelle rimaste a Trino: il cosiddetto vessel, il grande fagiolone di acciaio che conteneva il combustibile nucleare e dove avveniva la reazione. Smontarlo non sarà una cosa facile e ancora non è chiarissimo esattamente come si farà con quello di Trino: in parte perché non se ne conoscono esattamente le condizioni. Il vessel, che non contiene più combustibile nucleare, è chiuso da anni e la prima cosa che verrà fatta – a partire dal prossimo autunno – sarà una sorta di “carotaggio” dei primi millimetri della sua superficie interna per verificare la condizione dei materiali che lo costituiscono. Dopo essere stati a contatto per anni con i prodotti della fissione nucleare, infatti, anche i materiali non radioattivi cambiano la loro struttura e possono diventare pericolosi.
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La cosa che si sa, è che tutta l’operazione andrà fatta sott’acqua, in immersione totale, per evitare la dispersione di elementi radioattivi: l’acqua infatti fa da filtro per le radiazioni e se un oggetto radioattivo è coperto da uno spessore d’acqua sufficiente le sue radiazioni non ne oltrepassano la superficie. La vecchia vasca che contiene il vessel verrà quindi riempita d’acqua ancora una volta – già lo si faceva per tutte le operazioni di inserimento ed estrazione del combustibile – e con strumenti gestiti in remoto si procederà a tutte le operazioni di analisi e di smontaggio. In tutto, comunque, solo una piccola parte dei rifiuti prodotti dallo smantellamento della centrale dovrà finire nel deposito nazionale. Delle 214.315 tonnellate di rifiuti – che comprendono ogni cosa che fa parte della centrale, impianti e struttura compresa – circa 208mila, dopo i dovuti passaggi, potranno essere riciclati o smaltiti con metodi convenzionali.
Intanto, la centrale di Trino è ancora lì, almeno nelle sue parti più interessanti e uniche, così come lo sono le altre tre centrali nucleari italiane: a Caorso, in provincia di Piacenza, Latina e Garigliano, vicino Caserta. Sogin organizza ciclicamente visite che permettono di vedere da vicino non solo la notevole sala di controllo della centrale di Trino, ma anche il vessel stesso (almeno nella sua parte superiore, la “testa”) e tutto quello che gli sta intorno, dentro all’enorme cilindro di cemento e acciaio che ancora lo contiene.