La strategia americana in Venezuela è fallita?
L'amministrazione Trump sperava in un rapido successo dell'opposizione e nella diserzione in massa dei militari, ma non è successa nessuna di queste cose
Lo scorso gennaio, l’amministrazione di Donald Trump ha chiesto ufficialmente al governo venezuelano presieduto da Nicolas Maduro di dimettersi e di lasciare il posto all’opposizione guidata dall’autoproclamato presidente ad interim Juan Guaidó. Ma nonostante il riconoscimento ufficiale di Guaidó, nonostante quattro mesi e mezzo di minacce, sanzioni e pressioni diplomatiche da parte di quasi tutta la comunità internazionale, il regime di Maduro è ancora in piedi, sostenuto ancora dall’esercito e in grado di mobilitare migliaia di sostenitori.
Esperti e giornalisti stanno cominciando a chiedersi se la strategia americana per portare a un cambio di regime nel paese stia davvero funzionando e sempre più persone ne mettono in dubbio non solo l’efficacia, ma anche il prezzo umanitario. Ad esempio, il segretario di Stato americano Mike Pompeo è stato incalzato un paio di volte da giornalisti che gli chiedevano con insistenza una risposta sulle conseguenze delle sanzioni e dell’embargo che hanno colpito il paese, che secondo molti hanno finito con l’esasperare ulteriormente la già difficile situazione del paese. «Non si dovrebbero fare domande del genere», ha risposto a un certo punto Pompeo, dicendo di essere offeso dal solo menzionare l’idea che le sanzioni economiche possano aver peggiorato in qualsiasi modo la situazione del paese.
È oramai da diversi anni che il Venezuela si trova sull’orlo del collasso economico, con cibo e altri beni di prima necessità che sono razionati e comunque difficili da trovare. Gli stipendi pubblici vengono pagati in ritardo e con una moneta, il bolivares, che ha oramai perso ogni valore. Il governo è a corto di tutto e ha dovuto tagliare ogni sorta di spesa pubblica, dagli investimenti nell’industria petrolifera, la principale risorsa economica del paese, alla manutenzione della rete elettrica. Negli ultimi mesi la situazione è ulteriormente peggiorata. A marzo, la rete elettrica ha subito una serie di collassi generali che hanno lasciato l’intero paese al buio per ore e causato numerose morti all’interno degli ospedali lasciati senza corrente.
La grave situazione economica del paese e l’incapacità del regime di fornire servizi alla popolazione hanno contribuito a causare proteste e malcontento in tutto il paese. Migliaia di persone sono scese in piazza e si sono scontrate con la polizia, le milizie e i sostenitori del regime. Questo dissenso è stato sfruttato da Juan Guaidó, l’ex presidente dell’Assemblea nazionale che a gennaio si è proclamato presidente ad interim, sostenendo l’invalidità dell’elezione di Maduro e quindi la sua decadenza (la costituzione venezuelana stabilisce che in caso di indisponibilità del presidente, il presidente dell’Assemblea prende il suo posto fino alle successive elezioni). Oggi Guaidò è riconosciuto come legittimo leader del Venezuela da circa 50 paesi diversi, tra cui gli Stati Uniti, ma dopo alcuni mesi di attesa, il regime ha da poco deciso di togliergli l’immunità parlamentare, un segnale che potrebbe preludere a qualche tipo di azione nei suoi confronti.
Sabato scorso, i due presidenti hanno radunato per l’ennesima volta i propri sostenitori nella capitale Caracas. Guaidó si è rivolto a migliaia di persone esasperate dalla crisi economica chiedendo le dimissioni del presidente. Maduro ha radunato poco lontano una folla di miliziani e altri sostenitori, si è presentato con un cappello militare, circondato da soldati e altri ufficiali. Ha accusato gli Stati Uniti e i loro alleati di voler rovesciare il governo legittimamente eletto e ha incolpato le sanzioni e la “guerra economica” per le difficile condizioni del paese.
Il continuo sostegno dei militari al regime è una delle principali ragioni per cui Maduro è ancora al potere. Il Washington Post ha scritto che nell’amministrazione americana c’erano molte aspettative su una possibile rivolta dei militari. Gli esperti del dipartimento di Stato si aspettavano da un momento all’altro un colpo di stato che avrebbe portato alla deposizione di Maduro e a un cambio di regime. Fino ad ora però queste speranze non si sono materializzate. Appena 1.500 militari hanno disertato il regime, rifugiandosi nella vicina Colombia dove il governo li ha disarmati, privati delle uniformi e distribuiti in una serie di alberghi lungo il confine.
Il fatto che non ci siano state grosse defezioni tra i militari, molti dei quali non vedono da mesi lo stipendio e che, almeno nei ranghi più bassi, soffrono la crisi come il resto della popolazione, è una specie di piccolo mistero. Secondo esperti e analisti intervistati dal Washington Post, una delle ragioni che spiegano questo comportamento è il fatto che l’opposizione non è ancora riuscita a tranquillizzare i timori diffusi tra i militari. Ad esempio, fino ad ora l’opposizione non ha voluto promettere un periodo di transizione in seguito alla fine del regime, un periodo nel quale coinvolgere tutti i partiti e anche gli attuali quadri dell’esercito nella guida del paese.
Molti militari, in particolare quelli di rango più alto, temono di diventare vittime del cambio di regime e che l’eventuale vittoria dell’opposizione si tramuti nella persecuzione di tutti i sostenitori del vecchio regime e nella loro cacciata dai vertici dell’esercito. Le ripetute richieste da parte dell’opposizione di un intervento estero, che porterebbe a un cambio di regime più o meno violento, non hanno fatto che esacerbare questi timori (non è improbabile che molti di loro pensino allo scioglimento dell’esercito iracheno, con conseguenti licenziamenti di massa, dopo l’invasione del 2003). Secondo il Washington Post, l’amministrazione Trump sta perdendo la pazienza e le speranze nelle capacità di Guaidó di rovesciare il regime: per il momento però non è ancora emersa nessuna strategia alternativa.