Di chi è la colpa in Libia
L'inizio della terza guerra civile in meno di dieci anni sembra essere vicino, e la responsabilità è un po' di tutti: dei libici e della comunità internazionale
La Libia sembra essere molto vicina all’inizio della sua terza guerra civile in meno di dieci anni. Negli ultimi giorni l’esercito fedele al maresciallo Khalifa Haftar, che controlla buona parte della Libia orientale e meridionale, ha attaccato la capitale Tripoli, sede del governo riconosciuto internazionalmente e guidato dal primo ministro Fayez al Serraj. I combattimenti sono ancora in corso e le milizie fedeli a Serraj si sono mosse rapidamente per fermare l’avanzata nemica. Ora i due schieramenti sembrano equivalersi, ha scritto Daniele Raineri sul Foglio, e il timore è che possa iniziare una lunga guerra di posizione che rischia di sfiancare una popolazione già sfinita da anni di violenze e scontri.
L’ultimo attacco di Haftar contro Serraj a Tripoli ha aggravato una crisi già profonda che finora nessuno è riuscito a risolvere. La situazione attuale è frutto di molte cose, tutte importanti: le divisioni interne alla Libia, la presenza di centinaia di milizie armate e rivali, le smisurate ambizioni personali di alcuni leader politici, l’ostinazione della comunità internazionale ad appoggiare soluzioni considerate illegittime dai libici e inefficaci agli occhi di tutti, e le ingerenze straniere che hanno finito per inasprire le violenze. Quindi, di chi è la colpa? Partiamo dall’inizio.
Da sempre la crisi in Libia viene legata alle conseguenze della guerra civile del 2011, quella che portò alla destituzione dell’ex presidente Muammar Gheddafi. Nel conflitto intervennero militarmente anche diversi governi stranieri, tra cui la Francia e gli Stati Uniti, in appoggio alle milizie ribelli, dopo che le truppe del regime avevano iniziato a colpire i civili. I problemi vennero fuori a guerra finita, quando la Libia si ritrovò con centinaia di milizie armate e rivali, senza corpi intermedi (durante il regime di Gheddafi non sono esistiti veri partiti o sindacati), senza un governo in grado di controllare tutto il territorio e con il disinteresse di buona parte della comunità internazionale a favorire un processo di transizione verso la democrazia. Tutte cose che contribuirono al caos che continua ancora oggi.
Nel 2014, tre anni dopo, i fragili tentativi di democrazia fatti fino a quel momento fallirono. In Libia si tennero le seconde elezioni dall’intervento armato del 2011 – appoggiate anche dalla comunità internazionale – ma quando iniziarono gli scontri tra milizie armate a Tripoli le truppe statunitensi si ritirarono e gli eletti riuniti nella “Camera dei Rappresentanti”, con il nuovo governo, si spostarono a est, nella città di Tobruk.
A Tripoli, nel frattempo, milizie islamiste e altre provenienti da Misurata fecero un loro governo, che fu sfidato ben presto da Khalifa Haftar, ex sostenitore di Gheddafi che aveva trascorso molti anni negli Stati Uniti ed era tornato in Libia con la promessa di liberare il paese da tutte le forze islamiste: dai gruppi terroristici come al Qaida e lo Stato Islamico fino ad arrivare ai Fratelli Musulmani, storico movimento politico religioso presente in diversi paesi arabi (il governo con base a Tripoli non era lo stesso che c’è ora). La comunità internazionale inizialmente appoggiò la “Camera dei Rappresentanti”, cioè il polo politico di cui Haftar sarebbe poi diventato il leader incontrastato, con l’obiettivo di evitare la diffusione nel paese di gruppi terroristici. Il sostegno al governo orientale durò però solo per un periodo, poi le cose cambiarono di nuovo.
L’ONU, con l’importante partecipazione dell’Italia, favorì la creazione del governo di accordo di unità nazionale, quello guidato da Fayez al Serraj, che però ci mise diversi mesi a riuscire ad arrivare a Tripoli, estromettere il governo precedente e imporre il proprio controllo sulla capitale. Il governo di Serraj avrebbe dovuto mettere d’accordo tutti, ma la comunità internazionale mostrò ancora una volta di avere sottovalutato i problemi della Libia e le sue divisioni interne.
Secondo l’accordo promosso dall’ONU, la “Camera dei Rappresentanti” avrebbe dovuto riconoscere il governo di Serraj e diventare il suo braccio legislativo. Il problema è che non lo fece. Ci furono disaccordi soprattutto sul ruolo di Haftar, che aveva l’enorme ambizione di diventare il cosiddetto “uomo forte della Libia”, colui che avrebbe dovuto riunire tutto il paese sotto un’unica autorità. È un punto importante, questo, perché spiega un bel pezzo di storia recente della Libia. Senza il riconoscimento della “Camera dei Rappresentanti”, il governo di Serraj non aveva alcuna legittimazione popolare: non era stato nominato da un Parlamento eletto, ma solo “scelto” dalla comunità internazionale, la stessa che veniva incolpata da molti libici di essersi intromessa negli affari interni del paese.
Non fu l’unico caso in cui molti libici reagirono con rabbia a decisioni prese da governi stranieri: Ethan Chorin, analista esperto di Libia, ha scritto su Forbes che forti reazioni si ebbero anche quando il governo italiano, su iniziativa dell’allora ministro dell’Interno Marco Minniti (PD), fece un accordo con alcune milizie libiche e trafficanti di esseri umani per fermare i flussi di migranti diretti verso l’Italia.
Negli ultimi anni il problema del governo di Serraj, comunque, non fu solo la mancanza di legittimazione popolare, ma anche la sua incapacità di compiere il mandato che gli era stato affidato: disarmare le milizie e imporre il proprio controllo sul territorio. Chorin ha scritto che i media occidentali sono stati perlopiù acritici nel loro sostegno al governo di Serraj, riconoscendolo di fatto come unico centro di potere legittimo in Libia, ma ignorando tutti i problemi che si portava dietro.
Per molti versi la leadership di Haftar è stata più efficace: sia dal punto di vista militare, con la creazione dell’unica cosa che in Libia assomiglia a un esercito, sia da quello negoziale, vista la sua capacità a espandere la sua influenza senza combattere e facendo accordi con i capi locali, soprattutto nel sud del paese. Haftar è riuscito inoltre a vendere meglio la sua immagine di leader che combatte contro gli islamisti e il terrorismo, particolarmente attraente agli occhi di molti interlocutori stranieri, anche se non sempre corrispondente alla realtà: nel corso del tempo ha infatti stretto alleanze di tutti i tipi, anche con gruppi salafiti molto radicali, senza contare che furono le milizie di Misurata, alleate di Serraj, a sconfiggere lo Stato Islamico nella città libica di Sirte.
Uno dei maggiori successi di Haftar, comunque, è stato di avere diviso il fronte internazionale che appoggiava Serraj, ottenendo l’appoggio dell’Egitto, degli Emirati Arabi Uniti, della Russia e soprattutto della Francia, interessata a evitare la diffusione del jihadismo in Tunisia e Algeria e a mantenere la stabilità di due suoi partner strategici che confinano con la Libia, il Niger e il Ciad.
La mancanza di un fronte comune europeo sulla Libia è stata una delle ragioni che ha inasprito lo scontro tra Serraj e Haftar, anche se non l’unica e nemmeno la più importante. In particolare Italia e Francia hanno avviato da tempo una specie di competizione sulla Libia, che ha creato non pochi problemi e tensioni: non solo i due governi hanno deciso di appoggiare schieramenti tra loro rivali, ma si sono anche scontrati sui possibili piani da adottare per il futuro del paese, con i francesi favorevoli a tenere subito nuove elezioni e gli italiani contrari.
L’offensiva degli ultimi giorni contro Tripoli ha fatto quindi precipitare una situazione che era già di per sé molto intricata. L’impressione è che Haftar abbia lanciato l’offensiva per conquistare la capitale con l’obiettivo di arrivare in una posizione di forza alla Conferenza nazionale promossa dall’ONU e prevista dal 14 al 16 aprile a Ghadames, nel sudovest della Libia, per discutere di possibili nuove elezioni e in generale per provare a trovare un accordo che metta fine alla guerra civile. La sua mossa, molto criticata e da cui anche i francesi sembrano avere preso le distanze, potrebbe portare però a un nuovo grave conflitto, anch’esso come i precedenti da imputare a moltissime cose, tra cui le innumerevoli divisioni libiche e l’inadeguatezza delle risposte fornite dalla comunità internazionale.