Il governo dovrà ammettere che le sue previsioni erano sbagliate
Entro il 12 aprile dovrà approvare il DEF, il documento che contiene le stime economiche per i prossimi anni: saranno tutte molto peggiori di quanto era stato promesso pochi mesi fa
Nei prossimi giorni il governo dovrà mettere per iscritto il fallimento delle sue promesse sull’economia, in particolare quelle sull’aumento della crescita, sul contenimento del deficit e sulla riduzione del debito pubblico. Entro il 12 aprile dovrà infatti pubblicare il DEF, il Documento di Economia e Finanza, in cui elencare le sue previsioni sulla situazione economica nel prossimo futuro: saranno tutte peggiori di quanto era stato promesso nei mesi scorsi.
Una delle promesse che saranno deluse in maniera più significativa è quella sulla crescita. Alla fine dell’anno scorso il governo aveva stimato per il 2019 una crescita del PIL pari all’1,5 per cento, mentre l’allora ministro per gli Affari Europei, Paolo Savona, aveva detto che grazie alle misure contenute nella legge di bilancio e ai futuri investimenti che sarebbero stati realizzati, si sarebbe potuti arrivare fino al 2 per cento di crescita.
Questi obiettivi appaiono tutti oramai irrealizzabili. Secondo la Commissione Europea nel 2019 l’Italia crescerà di appena lo 0,2 per cento. Secondo l’OCSE l’economia del nostro paese sarà addirittura in calo, con una perdita dello 0,2 per cento. L’ISTAT intanto ha certificato che il 2018 si è concluso con una recessione che rischia di pesare sull’inizio del 2019. Una delle ragioni del calo è il generale rallentamento dell’economia mondiale, che viene spesso utilizzato dagli esponenti del governo per giustificare i cattivi risultati previsti. L’opposizione sostiene che in questo calo abbiano avuto una parte significativa anche le misure economiche del governo e l’incertezza generata dalla sua azione politica, accusata di essere erratica e confusionaria, anche perché nel frattempo le esportazioni continuano ad andare bene: è la domanda interna che va male.
Un altro indicatore destinato a peggiorare rispetto alle promesse è il rapporto tra debito pubblico e PIL, uno degli indicatori più utilizzati per determinare la stabilità finanziaria di un paese, e che quindi ha un’influenza diretta sul tasso di interesse chiesto da chi presta soldi a quel paese (lo spread, in altre parole). Il Sole 24 Ore ha ricordato che durante le trattative con la Commissione Europea, lo scorso autunno, il governo aveva promesso di ridurre questo rapporto grazie alla crescita economica e a un piano di dismissioni, cioè di vendita di beni pubblici, da 18 miliardi di euro.
Il problema è che la crescita non ci sarà (il governo aveva stimato un minimo di 0,6 per cento per raggiungere i suoi obiettivi) e del piano di dismissioni non c’è più traccia. Secondo il Sole:
«Il piano è rimasto confinato nella carta dell’ultimo programma di bilancio concordato con la commissione. E al momento non si ha notizia di mosse operative per tradurlo in pratica. Anche perché non mancano nelle stesse stanze dell’Economia le perplessità sulle effettive possibilità di realizzazione»
Insieme al debito salirà inevitabilmente anche il deficit. Il governo aveva trattato a lungo su questo punto con la Commissione, accordandosi alla fine per un deficit pari al 2 per cento del PIL (indicato nei documenti ufficiali come 2,04 per cento, anche se normalmente lo 0,04 andrebbe arrotondato a zero). Secondo le principali stime, questa cifra è destinata a salire fino al 2,5 per cento.
La pubblicazione del DEF rischia quindi di trasformarsi in un guaio per il governo, che smentirà nero su bianco le sue promesse di pochi mesi fa, attirandosi inevitabilmente critiche e ironie e innervosendo gli investitori, il che a sua volta potrebbe portare ad un aumento dello spread. Tutto questo rischia di avvenire nel pieno della campagna elettorale per le elezioni europee (che si terranno il prossimo 26 maggio). Anche per questa ragione molti giornali scrivono che il governo potrebbe cercare di rimandare la pubblicazione del documento, in modo da trovare nel frattempo un modo per limitare i danni che la sua diffusione potrebbe causare.
Una possibilità è inserire nel DEF una forte parte “propositiva”. Il DEF serve infatti a illustrare l’andamento economico, ma anche a spiegare a grandi linee quali azioni il governo intende intraprendere in futuro. A quanto sembra, i dirigenti del Movimento 5 Stelle vorrebbero arricchire molto questa parte, utilizzandola per annunciare una serie di incentivi e sgravi fiscali, destinati in particolare alle famiglie, che dovrebbero essere realizzati nel corso dell’anno e nel 2020 e che potrebbero contribuire a diminuire l’impatto negativo del documento sull’opinione pubblica. Scrive Giuseppe Colombo sull’Huffington Post:
I grillini vogliono inserire un pacchetto famiglia, che si sostanzia di tre azioni: più incentivi per baby sitter e pannolini, agevolazioni sulle rette degli asili nido, ma soprattutto una riforma dell’Irpef con il coefficiente familiare che tiene conto del numero dei figli a carico. Sono anche costi aggiuntivi per le casse dello Stato. Non solo. Secondo quanto riferiscono fonti del Movimento a Huffpost, nel decreto crescita che sarà abbinato al Def con l’obiettivo di alzare il Pil di qualche decimale i grillini vogliono la mini-Ires al 20% e un aumento della deducibilità Imu per i capannoni.
Secondo Emanuele Buzzi di Corriere della Sera, Di Maio avrebbe minacciato di non votare il DEF se non dovesse contenere queste proposte. Il ministro dell’Economia Giovanni Tria avrebbe però già avvertito i suoi colleghi di governo che né nel 2019 né nel 2020 ci saranno soldi sufficienti a realizzare queste misure. In particolare il prossimo anno, infatti, il governo dovrà trovare quasi 20 miliardi di euro per disinnescare le clausole di salvaguardia, un aumento automatico dell’IVA introdotto dal governo alla fine dell’anno scorso e che dovrebbe scattare se non si dovesse a riuscire a ridurre il deficit in altro modo. Annunciarle ora potrebbe aggravare gli effetti negativi del DEF, contribuendo all’impressione di un governo poco affidabile e costantemente in campagna elettorale.