Israele può tenersi le Alture del Golan?
Lo sostengono il governo israeliano e da qualche giorno gli Stati Uniti, e alcuni temono che possano giustificare così altre annessioni
Lunedì scorso il presidente statunitense Donald Trump ha riconosciuto la sovranità di Israele sulle Alture del Golan, altopiano di circa 1.800 chilometri quadrati occupato dall’esercito israeliano nel 1967, dopo averlo sottratto al controllo della Siria. La decisione di Trump, fortemente voluta dal primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, ha provocato molte discussioni, per almeno tre motivi: perché per decenni i governi americani avevano sostenuto che ogni cambiamento di sovranità dovesse avvenire tramite negoziati diretti tra le parti interessate, e non con dichiarazioni unilaterali; perché è contraria al diritto internazionale, che non riconosce la sovranità di Israele sui territori occupati durante la guerra del 1967, la cosiddetta “Guerra dei sei giorni“; e perché rischia di dare legittimità alla controversa politica di annessione adottata da tempo da Israele, con conseguenze sul futuro di altri territori contesi, come la Cisgiordania.
La questione è abbastanza complicata, sia per la storia particolare delle Alture del Golan, sia per le implicazioni politiche e giuridiche della decisione annunciata lunedì da Trump.
Cosa sono le Alture del Golan
Le Alture del Golan sono un altopiano che guarda verso la Siria e la Valle del Giordano, e che a causa della sua posizione strategica è stato fin dall’antichità al centro di dispute e scontri militari.
Prima della guerra del 1967, le Alture erano sotto la sovranità e il controllo della Siria ed erano abitate da circa 150mila siriani. Il conflitto iniziò dopo che Egitto, Siria e Giordania aumentarono la loro presenza militare ai confini di Israele, che decise di attaccare per anticipare le mosse dei suoi avversari arabi: nel giro di sei giorni l’esercito israeliano sottrasse la Striscia di Gaza e la penisola del Sinai all’Egitto, Gerusalemme Est e la Cisgiordania alla Giordania e le Alture del Golan alla Siria. Il Consiglio di Sicurezza dell’ONU approvò una risoluzione chiamata “terra in cambio di pace” (risoluzione 242), secondo la quale Israele avrebbe dovuto restituire i territori occupati in cambio del riconoscimento ufficiale dello stato israeliano, nato nel 1948, da parte dei tre paesi arabi. La risoluzione fu approvata anche dagli Stati Uniti, ma non fu mai applicata, perché gli stati coinvolti non si misero d’accordo su chi avrebbe dovuto fare il primo passo.
Nel dicembre del 1981 Israele approvò una legge che estendeva «leggi, giurisdizione e amministrazione» israeliane alle Alture del Golan. La legge, che prevedeva l’annessione di fatto dell’altopiano, fu giudicata «senza alcun effetto legale internazionale» dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU, che chiese al governo israeliano di ritirarla. Negli anni successivi il governo israeliano e quello siriano tennero diversi colloqui segreti per accordarsi sulla fine dell’occupazione militare di Israele. I negoziati si interruppero però nel 2011, con l’inizio della guerra in Siria.
Oggi le Alture del Golan sono abitate da circa 25mila drusi arabi e da 20mila coloni israeliani. La loro importanza per Israele è soprattutto strategica: l’altopiano è visto come una cosiddetta “buffer zone“, “zona cuscinetto”, che divide il territorio israeliano dalla Siria, dove negli ultimi anni si è rafforzata in maniera rilevante e notevole la presenza dell’Iran, storico nemico di Israele. Il governo guidato da Netanyahu ha parlato più volte della necessità di tenere lontani dai propri confini i soldati iraniani, che stanno aiutando il regime del presidente siriano Bashar al Assad a riprendere il controllo del suo paese. Israele considera la presenza dell’Iran una seria minaccia alla sua sicurezza nazionale, come dimostrano gli attacchi aerei compiuti in Siria negli ultimi mesi per colpire obiettivi iraniani o di Hezbollah, gruppo radicale libanese alleato dell’Iran.
Cosa cambia?
Concretamente, niente. Le Alture del Golan erano già sotto il controllo di Israele e resteranno sotto il controllo di Israele. Il fatto però che gli Stati Uniti non le considerino più “occupate” bensì “annesse”, parte di Israele a tutti gli effetti, è esemplare innanzitutto di come siano cambiate le condizioni politiche: dell’attuale posizione di forza di Israele nei confronti dei palestinesi e anche della comunità internazionale, ora che gli Stati Uniti hanno deciso di sposare pienamente la linea di Netanyahu dopo gli anni in cui l’amministrazione Obama aveva cercato di frenare Israele al prezzo di un grave peggioramento nelle relazioni diplomatiche.
Il fatto che oggi Netanyahu possa incassare questa vittoria «riflette quanto sia cambiato il contesto diplomatico attorno al conflitto israeliano-palestinese», ha scritto il New York Times. Una parte di questo cambiamento è stata provocata dall’amministrazione Trump, che negli ultimi mesi si è schierata molto nettamente a favore di Israele e contro le posizioni ribadite più volte dalla comunità internazionale e dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU (di cui tra l’altro fanno parte anche gli Stati Uniti, che sono uno dei cinque paesi con potere di veto). Il caso più eclatante e discusso è stato quello dell’ambasciata americana in Israele, che nel 2018 Trump ha deciso di spostare da Tel Aviv a Gerusalemme, forse la città più contesa della storia. Trump, in pratica, ha contribuito a “normalizzare” alcune delle proposte più radicali fatte da Israele negli ultimi anni.
Allo stesso tempo questa normalizzazione è in corso da tempo anche dentro Israele, dove il dibattito sul conflitto israelo-palestinese è diventato sempre più marginale, e dove la maggior parte delle persone – svanita la minaccia degli attentati suicidi che avevano agitato soprattutto gli anni Novanta – non percepiscono nessuna particolare urgenza per un negoziato o una trattativa. Allo stesso tempo, da anni le forze di sinistra sono incapaci di proporre politiche alternative all’ultranazionalismo di Netanyahu e dei suoi alleati; e la rappresentanza politica palestinese oggi è quanto mai divisa e poco credibile.
Gli effetti di questi cambiamenti sono visibili anche sull’opinione pubblica. In un sondaggio pubblicato lunedì dal quotidiano israeliano Haaretz, è emerso che il 42 per cento degli elettori appoggia l’annessione da parte di Israele di parti della Cisgiordania, una percentuale superiore rispetto a quella rilevata in passato. Tra i favorevoli ci sarebbero anche diversi israeliani che appoggiano la cosiddetta “soluzione dei due stati”, ovvero quella per cui la Cisgiordania e la Striscia di Gaza diventerebbero parte di uno stato palestinese (soluzione che è data però per morta da tempo). Gli sviluppi degli ultimi anni «hanno fatto sì che oggi si possa parlare apertamente di annessione della Cisgiordania in un modo che non era possibile solo pochi anni fa», ha scritto il New York Times.
Nonostante la decisione di Trump e i cambiamenti in atto nella politica israeliana, ha scritto Farnaz Fassihi sul Wall Street Journal, il resto della comunità internazionale non sembra però intenzionato a schierarsi dalla parte di Israele. Mercoledì tutti i membri del Consiglio di Sicurezza dell’ONU – sia quelli con potere di veto sia quelli senza – si sono detti contrari alla decisione di Trump di riconoscere la sovranità israeliana sulle Alture del Golan. Regno Unito, Francia e Russia hanno detto che gli Stati Uniti avevano violato il diritto internazionale e almeno due risoluzioni precedenti dell’organo. La Germania ha detto di comprendere l’importanza della sicurezza nazionale per Israele, ma ha aggiunto che non può giustificare in nessun caso un’annessione. Il giorno precedente i paesi europei membri del Consiglio di Sicurezza avevano diffuso un comunicato per condannare la mossa di Trump, definendola contraria alle norme dell’ONU. Anche nell’ONU, infine, si è parlato del rischio di creazione di un precedente, che per esempio potrebbe essere usato dalla Russia per giustificare legalmente la sua annessione della Crimea (che però è già avvenuta e, legale o no, non è reversibile per volontà dell’ONU, dove la Russia ha potere di veto come gli Stati Uniti: insomma, a livello internazionale e diplomatico “cosa è legale” conta ma fino a un certo punto).
Gli argomenti di Netanyahu e Trump
Fin dalla guerra del 1967, Israele ha rivendicato il diritto a esercitare la propria sovranità sui territori occupati, nonostante la netta opposizione della comunità internazionale, del Consiglio di Sicurezza dell’ONU e anche degli Stati Uniti. Negli ultimi giorni Netanyahu ha elaborato meglio il suo pensiero.
Lunedì scorso, dopo che Trump aveva annunciato il riconoscimento della sovranità israeliana sulle Alture del Golan, Netanyahu ha detto: «C’è un importantissimo principio nella vita internazionale. Quando inizi guerre di aggressione, e perdi dei territori, non puoi poi venire da noi e rivendicarli. Ci appartengono». Il giorno successivo, una volta atterrato all’aeroporto di Tel Aviv di ritorno dal suo viaggio negli Stati Uniti, ha aggiunto: «Chiunque dice che non puoi tenere per te un territorio occupato, ma tutto questo prova che sì, puoi. Dal momento che l’abbiamo occupato in una guerra difensiva, è diventato nostro». In entrambe le dichiarazioni, Netanyahu ha fatto riferimento al presunto carattere difensivo dell’azione militare di Israele nel 1967. Secondo il primo ministro, in pratica, iniziare una guerra di aggressione comporterebbe la perdita del diritto di rivendicare la propria sovranità sui territori eventualmente persi durante il conflitto.
Martedì il segretario di Stato americano, Mike Pompeo, ha detto: «Israele stava combattendo una battaglia difensiva per salvare la sua nazione, e non è ammissibile che ci sia una risoluzione ONU che è un patto suicida. Semplicemente non può essere, e questa è la realtà che il presidente Trump ha riconosciuto ieri nel suo ordine esecutivo». Pompeo non ha specificato di quale risoluzione parlasse, ma nel corso degli anni il Consiglio di Sicurezza ONU ha approvato diverse risoluzioni che definivano le Alture del Golan un territorio occupato.
Sia le dichiarazioni di Netanyahu che quelle dell’amministrazione Trump esprimono valutazioni politiche, ma non esiste alcuna norma internazionale che preveda che uno stato possa rivendicare la sovranità su un territorio conquistato durante una guerra, anche se si parla di una guerra preventiva o difensiva. Gli unici modi per stabilire nuovi confini “legali” sono: tramite un accordo tra gli stati coinvolti, come per esempio fecero India e Bangladesh nel 2015 su un’enclave dentro un’enclave dentro un’enclave; oppure tramite il riconoscimento della nuova situazione da parte della comunità internazionale, come avvenne per esempio con la dissoluzione della Jugoslavia e la nascita di nuovi stati nazionali riconosciuti dalla stragrande maggioranza dei paesi del mondo. Da questo punto di vista Israele può sostenere che il riconoscimento di un paese influente come Stati Uniti sia o possa essere l’inizio di un più ampio riconoscimento da parte della comunità internazionale, ma naturalmente questo è tutto da vedere.
Inoltre, non c’è nemmeno accordo che l’azione militare di Israele nel 1967 si possa considerare una “guerra preventiva” e il dibattito tra gli esperti va avanti da moltissimi anni.
Si è creato un precedente?
Le implicazioni legali e politiche della decisione di Trump sembrano essere soprattutto di due tipi: la possibilità che altri paesi usino lo stesso argomento per legittimare l’annessione di territori ottenuta tramite l’uso della forza; e la possibilità che Israele possa estendere lo stesso ragionamento alla Cisgiordania, altro territorio occupato nella guerra dei Sei giorni combattuta nel 1967.
Riguardo al primo punto, diversi giornalisti hanno chiesto a Pompeo di chiarire in che modo l’annessione israeliana delle Alture del Golan fosse diversa dall’annessione russa della Crimea, punita dagli Stati Uniti e dall’Unione Europea con l’adozione di sanzioni. Pompeo ha sostenuto che i due casi sono diversi perché nel primo l’offensiva sarebbe stata decisa come strumento di difesa, per prevenire un attacco dei paesi nemici, mentre nel secondo no, perché non c’era alcuna minaccia imminente (anche il governo russo provò a giustificare la sua azione con argomenti “difensivi”, hanno ricordato David Halbfinger e Isabel Kershner sul New York Times, sostenendo che la numerosa comunità russa locale fosse discriminata dal governo di Kiev). Inoltre, Pompeo ha detto che il riconoscimento della sovranità israeliana sulle Alture del Golan è un atto che ribadisce una situazione esistente nei fatti; analogamente, però, si potrebbe fare lo stesso discorso per la Crimea, territorio su cui – dal momento dell’annessione – l’unico governo che esercita la sovranità è quello russo.
La seconda grossa implicazione riguarda la possibilità che Netanyahu sfrutti la decisione di Trump per aprirsi la strada a una futura annessione della Cisgiordania. Il discorso è piuttosto complicato. Da una parte le due situazioni sembrano essere molto diverse, soprattutto perché i civili che vivono nelle Alture del Golan sono molti meno di quelli che abitano la Cisgiordania. Nel 1981, quando approvò la legge sull’annessione di fatto delle Alture del Golan, il governo israeliano diede la possibilità a tutti i civili che vivevano nell’altopiano di scegliere se diventare cittadini israeliani, un passo importante per un’annessione di fatto. Adottare la stessa politica in Cisgiordania non sembra però essere nei piani di Netanyahu, perché significherebbe accettare la nascita di uno stato israeliano binazionale, che comporterebbe la concessione di diritti anche ai palestinesi: le politiche adottate di recente dal governo israeliano sembrano infatti andare nella direzione opposta, come dimostra l’approvazione della legge “Stato della nazione ebraica” dello scorso luglio.
Se si guarda la questione dal punto di vista del diritto internazionale, ha scritto Noa Landau su Haaretz, l’occupazione delle Alture del Golan è però simile all’occupazione della Cisgiordania. Altri governi potrebbero unirsi agli Stati Uniti, e se la tendenza dovesse continuare a essere quella di accettare la legittimità della sovranità israeliana sui territori occupati «potrebbe non passare molto tempo prima che si cominci a parlare dell’annessione della Cisgiordania e forse di Gaza», ha scritto Landau.