La Cina ha un serio problema con la peste suina africana
Migliaia di maiali sono morti a causa di un'epidemia che sembra essere molto più estesa di quanto ammetta il governo, racconta Reuters
Dallo scorso anno la Cina è alle prese con un aumento dei casi di peste suina africana, causata da ASFV, un virus che si diffonde rapidamente negli allevamenti comportando la morte della maggior parte dei loro suini. Secondo un’inchiesta realizzata da Reuters, le amministrazioni locali che hanno il compito di tenere sotto controllo la situazione, e di segnalare le epidemie al governo, in molti casi preferiscono fare finta di nulla per evitare di dover pagare i rimborsi agli allevatori, costretti ad abbattere i loro suini per evitare che il virus si diffonda ulteriormente. Le stime ufficiali del governo centrale sarebbero quindi molto distanti dalla realtà e c’è un rischio, sempre più concreto, che l’epidemia si diffonda in ampie zone della Cina con pesanti ripercussioni per l’economia.
Non esiste una cura contro l’ASFV: quando infetta i maiali causa febbre ed emorragie interne, che nel 90 per cento dei casi portano alla morte dell’animale. Per quanto drastica, l’unica soluzione efficace consiste nell’abbattere tutti gli animali negli allevamenti in cui sono stati registrati casi di peste suina, contenendo in questo modo la diffusione del virus. In Cina, la legge prevede che, oltre ai maiali dell’allevamento infetto, siano anche abbattuti tutti gli altri suini nel raggio di 3 chilometri.
Per ogni animale abbattuto, gli allevatori ricevono un indennizzo di 1.200 yuan (158 euro), a carico delle amministrazioni locali. Stando alle informazioni raccolte da Reuters, gli amministratori locali sono però restii a dichiarare un nuovo focolaio perché spesso non si possono permettere il pagamento degli indennizzi verso allevamenti con migliaia di maiali. La presenza di focolai di peste suina africana può essere confermata e certificata solamente dalle amministrazioni provinciali, i test svolti in autonomia dalle aziende non sono consentiti, non hanno valore legale e non possono essere quindi usati per chiedere gli indennizzi. Nell’inchiesta di Reuters vengono citati i casi di aziende che hanno faticato a lungo prima che fosse riconosciuta la contaminazione da ASFV nei loro allevamenti.
Sun Dawu è il presidente dell’azienda Hebei Dawu e ha raccontato di avere dovuto attendere settimane prima che fosse riconosciuto un focolaio di peste suina africana in uno dei suoi allevamenti. A fine febbraio, non avendo ancora ricevuto risposte soddisfacenti, Dawu ha pubblicato fotografie e documenti sul social network cinese Weibo segnalando la situazione e i suoi sospetti sull’epidemia.
Due giorni dopo la loro pubblicazione, il ministero dell’Agricoltura si è infine mosso, a quasi 7 mesi dai primi contatti avviati dall’azienda con le autorità locali. Sun ha spiegato che nell’attesa erano già morti 15mila maiali e che ne erano stati venduti un migliaio ad altri allevamenti. L’impossibilità di effettuare controlli in autonomia aveva complicato ulteriormente le cose, lasciando Sun in attesa dei controlli veterinari da parte del governo.
Reuters ha ottenuto documenti e raccolto testimonianze su altre aree della Cina. In un caso, le autorità locali si erano rifiutate di effettuare i test, proprio per evitare di doversi fare carico del problema. In un altro, i test furono eseguiti ma diedero esito negativo, nonostante nell’allevamento interessato continuassero a morire maiali e fosse stato effettuato ufficiosamente un test dall’azienda, che aveva dato esito positivo.
La Cina consuma da sola circa la metà di tutta la carne di maiale prodotta al mondo. Secondo le stime degli analisti, a causa della peste suina africana la produzione nel 2019 potrebbe subire una riduzione del 30 per cento. Se così fosse, i prezzi della carne di maiale potrebbero aumentare sensibilmente, facendo anche aumentare le importazioni per soddisfare l’alta domanda nel paese. Le ripercussioni economiche per il settore, e non solo, sarebbero pesanti e con numerose conseguenze.
Nonostante le prospettive indicate dagli analisti, per ora il governo cinese comunica un certo ottimismo sulla situazione, ma secondo i dati dello stesso ministero dell’Agricoltura cinese, la quantità di maiali allevati a febbraio è diminuita del 16 per cento rispetto all’anno precedente.
La peste suina africana non costituisce un pericolo sanitario per la popolazione. I dati sulle epidemie devono essere comunque comunicati all’Organizzazione mondiale della sanità animale (OIE), un’organizzazione intergovernativa di cui fa parte anche la Cina. Dall’agosto del 2018, il governo cinese ha segnalato 112 focolai in 28 province della Cina. Il numero di casi segnalati è poi diminuito nei primi mesi del 2019 e il ministero dell’Agricoltura cinese sostiene che la situazione stia migliorando gradualmente.
A giudicare dalle informazioni raccolte da Reuters e da altre segnalazioni, la situazione sembra essere meno positiva. Le segnalazioni stesse provengono spesso da territori molto distanti tra loro, con una distribuzione geografica che non è compatibile con il modo in cui si diffonde la malattia. Inoltre, il virus viene ritrovato spesso nei prodotti alimentari esportati dalla Cina verso paesi come il Giappone e la Corea del Sud, dove vengono effettuati controlli a campione sugli alimenti importati.
Governo e amministrazioni locali in Cina hanno investito molto denaro negli ultimi anni per promuovere buone pratiche per evitare che il virus si diffonda, e che si verifichino le infezioni in primo luogo. Il problema è che i focolai si registrano sia negli allevamenti più piccoli sia in quelli più grandi, dove di solito ci sono maggiori precauzioni igieniche proprio per evitare il rischio che il virus si diffonda in decine di migliaia di maiali.