In Giappone la puntualità è fondamentale
E un ritardo di pochi secondi o minuti può diventare motivo di accuse, polemiche e scuse: c'entra la cultura, ma è un cambiamento relativamente recente
Un giorno di febbraio il ministro giapponese per l’organizzazione delle Olimpiadi del 2020, Yoshitaka Sakurada, si è presentato con tre minuti di ritardo a una riunione in Parlamento. Il suo ritardo ha causato l’indignazione di alcuni parlamentari dell’opposizione, che hanno organizzato una lunga protesta; alla fine il ministro è stato costretto a scusarsi pubblicamente. Non è la prima volta che Sakurada riceve attenzioni da parte della stampa internazionale — lo scorso novembre aveva detto di non aver mai usato un computer, nonostante dovesse occuparsi di sicurezza informatica — ma al di là del singolo caso, le proteste per il ritardo del ministro hanno fatto parlare di nuovo del rapporto che i giapponesi hanno con il tempo e con la puntualità.
Nel novembre 2017 un treno della linea tra Tokyo e Tsukuba partì venti secondi prima dell’orario stabilito, e ci fu un caso analogo nel maggio successivo. Sembra che in questo secondo caso ci siano state delle persone lasciate in stazione, nonostante mancassero solo 25 secondi alla partenza. In entrambi i casi ci furono grande indignazione e contrite scuse pubbliche, che la stampa occidentale riportò sottolineando quanto tutto ciò fosse lontano e paradossale rispetto alla nostra realtà, fatta di treni che partono o arrivano in ritardo con una certa frequenza; allo stesso modo, l’interesse di queste settimane per il caso di Sakurada è dovuto al fatto che tre minuti di ritardo, in molti contesti sociali occidentali tra cui quello italiano, non sono neanche considerati un vero “ritardo”.
Il South China Morning Post ha raccontato che i giapponesi non sono stati sempre così scrupolosi nel rispettare gli orari. Anzi, nei primi anni dell’Ottocento, prima che il Giappone si industrializzasse, i suoi abitanti gestivano il tempo in maniera molto diversa da ora: secondo la testimonianza di un esploratore olandese di quegli anni, i giapponesi erano piuttosto pigri e ritardatari, e anche i treni non erano affatto efficienti come lo sono ora.
Le cose cominciarono a cambiare negli anni che vanno dal 1868 al 1912, corrispondenti al cosiddetto “periodo Meiji”, durante il quale l’imperatore abolì il sistema feudale vigente fino a quel momento, si riprese il potere politico che era stato in mano per secoli a una specie di dittatore militare – i cosiddetti shogun – e avviò il processo di industrializzazione del paese. Fu in questi anni che la puntualità divenne una norma sociale da rispettare, poiché era considerata un passaggio fondamentale per raggiungere la modernizzazione auspicata soprattutto nelle scuole, nelle fabbriche e nelle ferrovie. Il concetto alla base di quest’idea era, in fondo, semplice: il tempo è denaro. La propaganda e l’azione del governo fu talmente efficace da rendere la puntualità parte della cultura giapponese, anche grazie alla diffusione degli orologi meccanici, che prima di allora, banalmente, non esistevano.
Un esempio eloquente di questa propaganda sono i manifesti su come impostare il proprio stile di vita e risparmiare tempo, come un guida degli anni Venti che spiegava alle donne come farsi un’acconciatura in 5 minuti, oppure in 55 per le occasioni più formali.
Oltre alla puntualità, gli impiegati giapponesi hanno acquisito nel tempo la tendenza a lavorare oltre gli orari stabiliti. Dal secondo dopoguerra, infatti, in Giappone si creò un sistema lavorativo tale per cui gli impiegati, principalmente ex soldati tornati dal fronte, instauravano un legame molto forte con l’azienda o il datore di lavoro, talvolta più forte di quello che avevano con la propria famiglia. C’era da ricostruire economicamente un paese quasi distrutto dalla guerra e dalle bombe atomiche del 1945, e il senso di lealtà dei lavoratori veniva ripagato con aumenti di stipendio e con la garanzia del posto fisso.
Il rispetto scrupoloso degli orari e lo spirito di servizio, tuttavia, non hanno risparmiato all’economia giapponese un grosso problema di produttività, a testimonianza del fatto che lavorare di più non significa necessariamente essere più efficienti: secondo l’OCSE (l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico) nel 2017 un’ora di un lavoratore giapponese è valsa in media 40 euro di PIL nazionale, 10 euro in meno di un lavoratore italiano, 23 euro in meno di un lavoratore tedesco e 47 euro in meno di uno irlandese.
Oltre a non comportare vantaggi dal punto di vista economico, il carico di lavoro eccessivo ha causato uno stress talvolta ingestibile nelle vite dei lavoratori giapponesi: tra il gennaio 2015 e il marzo 2016 ci sono stati più di duemila suicidi per stress da lavoro. Negli ultimi anni le cose stanno cambiando, ma riformare il sistema economico e l’insieme delle abitudini lavorative dei giapponesi è molto difficile, soprattutto perché le imprese continuano a valutare i lavoratori dal punto di vista quantitativo, piuttosto che qualitativo.