Perché Levi’s vale 7 miliardi di euro
Dopo un periodo di crisi, ora la società è tornata a crescere: da ieri è nuovamente quotata in borsa e il primo giorno è andato benissimo
L’azienda di moda statunitense Levi Strauss & Co, famosa soprattutto per i jeans e nota anche come Levi’s, è tornata ad essere quotata in borsa a New York il 21 marzo, dopo più di 30 anni. L’operazione è stata un grosso successo considerato che le azioni erano state inizialmente vendute a 17 dollari l’una (circa 15 euro) e al momento della chiusura della borsa mercoledì sera erano salite a 22,4 dollari (19,8 euro). Anziché i 6,6 miliardi (5,5 miliardi di euro) previsti, l’azienda ha quindi raccolto circa 8,1 miliardi di dollari (7 miliardi di euro), il 32 per cento in più delle stime iniziali. La famiglia Haas – cioè i successori di Levi Strauss, che la fondò nel 1873 e morì senza figli nel 1902 – detiene il 61 per cento delle azioni e ne ha vendute per un valore di 300 milioni di dollari. Levi’s si era già quotata in borsa nel 1971 ma nel 1985 la famiglia Haas aveva ricomprato tutte le azioni mantenendone il controllo finora. Giornalisti ed esperti di moda ed economia – tra cui Cathaleen Chen del sito Business of Fashion – stanno cercando di spiegare l’ottimo risultato, che attribuiscono soprattutto al direttore esecutivo Charles “Chip” Bergh, arrivato nel 2011, e alle sue scelte strategiche.
Quando Bergh fu assunto, Levi’s stava vivendo un periodo di difficoltà economiche e un calo di immagine, che nel 2009 avevano portato al record negativo il fatturato: quattro miliardi di dollari, la metà rispetto all’inizio degli anni Novanta. Bergh puntò a rafforzare la desiderabilità di Levi’s in tutte le fasce d’età e a ripresentarlo come un marchio classico americano e contemporaneamente a rinnovarlo rispondendo alla concorrenza della fast fashion, cioè le aziende che propongono abbigliamento economico alla moda, come Zara e H&M, e dell’athleisure, cioè la tendenza a indossare gli abiti da palestra, come leggings e felpe, nella vita di ogni giorno. Da allora Levi’s ha attraversato una crescita economica costante, per 11 trimestri consecutivi negli Stati Uniti.
Nel 2013, per la prima volta in cinque anni, sia il fatturato che i profitti della società sono cresciuti e l’anno scorso i ricavi sono aumentati del 14 per cento, arrivando a 5,6 miliardi di dollari (5 miliardi di euro), di cui 283 milioni di dollari (250 milioni di euro) di reddito netto. Il debito è passato da 1,97 miliardi di dollari (1,75 miliardi di euro) nel 2011 a 1 miliardo di dollari (890 milioni di euro) del 2018. Il successo della quotazione in borsa è l’ultima dimostrazione che la strategia ha funzionato.
Nel 2011, Levi’s non era più il riferimento culturale che era stato negli anni Novanta. Bergh cercò di capire perché e si fece da aiutare da Karyn Hillman, assunta come direttrice del prodotto nel 2013. Hillman modernizzò le linee dei vestiti femminili, migliorando le vendite di giacche e magliette; aumentarono anche le vendite del denim (cioè il tessuto che comunemente chiamiamo jeans). Per tornare competitivo rispetto all’athleisure imperante negli anni Dieci, Levi’s cercò di capirne la chiave del successo e anziché riproporla la adattò alla sua offerta e al suo stile. Jen Sey, responsabile del marketing, ha spiegato a BoF che «chiedemmo ai consumatori “Perché indossi i leggings per andare a fare un brunch la domenica? Cosa ti spinge a sceglierli?” Alla fine, era la comodità. Così anziché entrare anche noi nel mercato dell’athleisure, abbiamo risposto a quella domanda con la comodità, con jeans più morbidi, e una migliore elasticizzazione».
Levi’s ha investito molto anche nella tecnologia laser Future-Led Execution (FLX) che usa i laser per personalizzare con scoloriture e strappi jeans standard e che permette di impiegare meno prodotti tossici e ridurre i tempi di lavorazione: per terminare un paio di jeans basteranno 90 secondi, contro le due o tre ore attuali. Il sistema è stato testato l’anno scorso e ora la personalizzazione sarà offerta online a partire dall’autunno 2019.
Bergh ha anche migliorato gli acquisti diretti dall’azienda al cliente – quindi non attraverso un altro rivenditore – che sono saliti di un terzo grazie all’e-commerce e agli 800 negozi gestiti direttamente da Levi’s in tutto il mondo. Molti negozi cercano di attirare i più giovani, particolarmente desiderosi di prodotti personalizzati, permettendo di aggiungere toppe, spillette e catene ai jeans. Levi’s comunque ha selezionato i rivenditori terzi, come Urban Outfitters, e ha stretto collaborazioni con marchi come Off-White e Re/Done. È stato anche tra i primi, nel 2016, a proporre jeans alti a vita alta e gamba larga, diventati molto di moda negli ultimi anni anche grazie all’immediato apprezzamento mostrato su Instagram da Kylie Jenner, una delle tante celebrità fan di Levi’s.
Per finire, ha aiutato la crescita anche il costo dei jeans, non bassissimo ma abbordabile. Un paio dei celebri 501, tra i modelli più famosi dei Levi’s, costa 90 euro (ci sono anche modelli che arrivano a 140): sono più cari di quelli di H&M o Zara, ma meno di altri jeans di lusso, potendo contare sul prestigio e su una buona qualità.
Bergh ha intenzione di far crescere l’azienda attraverso gli investimenti: fino a qualche anno fa veniva reinvestito meno del 2 per cento del capitale che finiva soprattutto a tappare buchi e perdite; quest’anno il 3,5 per cento dei ricavi sarà invece speso nella crescita, con l’apertura di nuovi negozi e il rafforzamento dell’e-commerce.