Un altro Sei Nazioni disastroso
L'evidente inferiorità dell'Italia del rugby sta allontanando i tifosi ed è una pessima pubblicità per tutti, anche se non preoccupa il presidente federale
di Pietro Cabrio
La ventesima edizione del Sei Nazioni maschile di rugby si è conclusa sabato con la vittoria e il “Grande Slam” del Galles, che è riuscito a riportare il titolo a Cardiff dopo sei anni. Per l’Italia, invece, il Sei Nazioni 2019 si è concluso con il quattordicesimo “cucchiaio di legno” – il premio simbolico che spetta all’ultima classificata – e il quarto “cappotto” consecutivo, cioè la quarta edizione di fila conclusa avendo perso tutte le partite. Con l’ultimo incontro perso, sabato scorso a Roma con la Francia, le sconfitte consecutive dell’Italia nel Sei Nazioni sono arrivate a ventidue. L’ultima vittoria risale al 2015 mentre l’ultimo successo casalingo è datato 16 marzo 2013.
Una manifestazione di inferiorità così evidente e prolungata nel tempo è preoccupante per tante ragioni e sta mettendo alla prova anche il proverbiale ottimismo degli appassionati. Il pubblico alle partite sta lentamente calando ed è tenuto su dalle migliaia di stranieri che approfittano del Sei Nazioni per farsi un giro a Roma (l’anno scorso, per le partite contro Inghilterra e Scozia, ne arrivarono circa 27.000). La federazione quest’anno si aspettava 150.000 spettatori, ma nelle tre partite giocate a Roma non si è andati oltre le 130.000 presenze. Lo share televisivo rilevato per le dirette non supera il 3 per cento. All’estero, invece, sembra si stiano stancando di vedere l’Italia “ostaggio del torneo”, surclassata a ogni partita, e propongono continuamente riforme per introdurre una retrocessione.
Le sconfitte dell’Italia preoccupano tanti, quindi, ma a quanto pare non chi è nella posizione di occuparsene. Al termine della partita contro la Francia, Alfredo Gavazzi, imprenditore bresciano, fondatore di una delle squadre di club più importanti del paese e da sette anni presidente della federazione rugbistica italiana – in cui è presente con ruoli operativi da oltre vent’anni – non è sembrato dare peso a nessuna di queste preoccupazioni. Intervistato in televisione e poi tramite il suo account Twitter ha detto: «Sono contento, per molti motivi, dell’operato dell’allenatore Conor O’Shea. Il processo di crescita avuto con molti giovani è sotto gli occhi di tutti. Abbiamo ancora molto da lavorare, dopo gare come quelle con Irlanda o Francia sono convinto che qualcosa stia cambiando. Abbiamo dimostrato di essere in crescita e di essere rispettati da tutti gli avversari».
Gli aspetti che fanno ben sperare Gavazzi sono probabilmente legati alle statistiche delle partite dell’Italia, che ha concluso il torneo con 79 punti segnati e 167 subiti per una differenza negativa pari a 88 punti. Nelle precedenti tre edizioni, in effetti, l’Italia aveva fatto peggio. L’anno scorso i punti realizzati furono 92 e quelli concessi 203, per un passivo finale negativo di 111 punti. Nel 2017 il passivo negativo arrivò a 151 mentre nell’anno ancora precedente — l’ultimo con l’allenatore francese Jacques Brunel — la differenza fu simile (-145).
Questi numeri, però, oltre a testimoniare la lentezza della crescita italiana al ventesimo anno di partecipazione, dicono ben poco sulle partite disputate. Nella prima gara contro la Scozia – un tempo l’avversaria più alla portata – l’Italia non ha mai dato l’impressione di competere alla pari. Ha perso 33-20 evitando una figuraccia solo grazie alle mete, ininfluenti, segnate nei minuti finali. Nella seconda partita, giocata a Roma contro un Galles pieno di riserve, c’è stata più competizione in campo, ma gli avversari, pur con qualche difficoltà, sono riusciti a portare a casa comunque una vittoria netta: 26-15. Alla terza contro l’Irlanda, che oltre a essere poco brillante aveva anche preso sottogamba l’incontro, la sconfitta è stata simile. Con l’Inghilterra nel quarto turno non c’è stata partita, mentre nell’ultimo turno contro la Francia, nonostante gli avversari fossero in profonda crisi, l’Italia ha pagato inesperienza e ingenuità riuscendo a perdere 14–25 una partita che si poteva vincere (per quanto brutto sia stato lo spettacolo offerto in campo da entrambe).
Gavazzi ha citato “il processo di crescita avuto con molti giovani”, che in effetti ci sono. Molti di questi però non si sono formati in Italia ma all’estero, come anche il capitano Sergio Parisse, probabilmente il più forte e completo rugbista che l’Italia abbia mai avuto. Jake Polledri è cresciuto e ha giocato sempre e solo in Inghilterra. Braam Steyn è sudafricano e si è formato lì. Dave Sisi, rivelazione italiana del torneo, è cresciuto in Inghilterra come Polledri. Sebastian Negri, probabile “erede” di Parisse, è nato in Zimbabwe e si è formato tra Sudafrica e Inghilterra. Tiziano Pasquali ha iniziato a giocare a rugby tra Scozia e Inghilterra per poi trasferirsi a Treviso, come Negri.
Le cose in qualche modo positive da ricordare di questo Sei Nazioni sono i miglioramenti nella tenuta in partita, grazie alla maggior attenzione data dallo staff alla preparazione fisica, i timidi progressi sul piano del gioco e la gestione della “base” di giocatori a disposizione, in miglioramento ma ancora troppo limitata. I meriti di questi progressi vanno riconosciuti alla gestione tecnica di Conor O’Shea, un allenatore brillante e ben voluto dai giocatori, a cui però manca un sostegno adeguato, come è stato per i suoi predecessori.
I difetti del movimento nazionale sono noti e tornano evidenti anno dopo anno in mancanza di risultati positivi, senza che ci siano però riforme, investimenti e novità significative: si aspetta. L’unica squadra di club realmente competitiva in campo internazionale è la Benetton Treviso, che però è un caso unico e inimitabile: ha una delle più grandi tradizioni rugbistiche del paese, ha sede nell’unica regione italiana, il Veneto, che avrebbe la forza di creare un campionato a sé stante, e dal 1978 è di proprietà della famiglia Benetton, il cui grande patrimonio permette investimenti significativi e impensabili per qualsiasi altro club.
La seconda squadra di punta del movimento, le Zebre di Parma — una franchigia tenuta in piedi con i fondi federali — partecipa al campionato sovranazionale Pro14 insieme alla Benetton da sette anni. È arrivata ultima in cinque edizioni, e la sesta in arrivo. Da quando esistono, le Zebre pagano la mancanza di un progetto chiaro (spesso si ritrovano a inizio stagione senza garanzie economiche) e soprattutto la mancanza di un numero adeguato di giocatori di qualità. Senza gli stranieri attualmente in rosa, il livello dei soli giocatori italiani sarebbe totalmente inadeguato al campionato (e questo vale anche per la Benetton).
Le altre squadre italiane, nel frattempo, continuano a barcamenarsi in una situazione di semi-professionismo, sono a corto di fondi e pagano l’ingarbugliata organizzazione nazionale architettata negli anni dalla federazione. In questo contesto, gli ottimi risultati ottenuti di recente dalle nazionali giovanili rischiano di perdersi con il “salto” nel professionismo.
Se il movimento è retto da un sistema che probabilmente non soddisfa le esigenze del rugby italiano, i conti della federazione sono messi ancora peggio. Due anni fa i bilanci federali furono addirittura oggetto di un’interrogazione parlamentare promossa da cinque deputati, i quali fecero notare il progressivo aumento delle perdite (da 265.000 euro nel 2013 agli oltre 600.000 del 2016) nonostante i ricavi nello stesso periodo fossero stati superiori ai 200 milioni di euro, e una liquidità di cassa scesa dai 13 milioni di euro del 2011 ai 2 milioni del 2016. Il peggioramento dei conti ha richiesto una politica di risanamento ancora in corso per accantonare circa 3 milioni euro di utile nel triennio che si concluderà quest’anno. L’ultimo bilancio ha mostrato dei ricavi pari a 45 milioni di euro con un saldo attivo di poco superiore a 500.000 euro: una situazione ora ritenuta sotto controllo che però ha bloccato gli investimenti più significativi.
Dell’inferiorità del movimento italiano (rispetto a quello delle avversarie nel Sei Nazioni) ne è consapevole soprattutto la trentina di giocatori che per un mese e mezzo ha giocato nei più grandi stadi d’Europa sapendo di avere davanti a sé ostacoli fuori portata. Il loro impegno non è mai stato in discussione, e continuerà a essere così. Nonostante le proposte sull’introduzione di retrocessioni siano sempre più frequenti, il format del Sei Nazioni sarà questo almeno fino al 2024, l’anno di scadenza del contratto che lega l’Italia all’organizzazione. Le difficoltà economiche della federazione, inoltre, rendono ancora più indispensabili gli introiti generati dal torneo. Per questa edizione gli organizzatori distribuiranno premi per oltre 130 milioni di euro: il 90 per cento diviso in sei parti uguali tra le partecipanti mentre il restante 10 ripartito tenendo conto del “peso” delle federazioni. Solo per essere arrivata ultima, l’Italia riceverà 1,7 milioni di euro.
Il progetto tecnico di O’Shea e del suo staff si concluderà dopo la Coppa del Mondo, in programma in Giappone il prossimo autunno. L’Italia ha avuto sfortuna ed è capitata in un girone dove le probabilità di qualificarsi alla fase a eliminazione diretta si possono già dire nulle: incontrerà infatti la Nuova Zelanda, nazionale campione in carica da due edizioni, e il Sudafrica, quinta squadra del ranking mondiale, tornata fra le grandi dopo le difficoltà incontrate negli ultimi anni.