I Democratici statunitensi rischiano di complicarsi la vita da soli
Le regole previste per le prossime primarie insieme al gran numero di candidati in corsa potrebbero creare un bel pastrocchio
Le primarie con cui il Partito Democratico statunitense sceglierà la persona che sfiderà Donald Trump alle elezioni presidenziali del 2020 inizieranno tra poco meno di un anno, ma le persone che hanno annunciato la propria candidatura sono moltissime, molte di più di quanto accaduto nel recente passato. Questa straordinaria partecipazione alle primarie, unita al cambiamento di alcune regole nella competizione, rischia però di complicare molto la scelta degli elettori, la vita al partito e, in ultima istanza, di danneggiare le chance di battere Trump, ha scritto di recente David Wasserman sul New York Times e sostengono da tempo molti addetti ai lavori.
Le persone che si sono ufficialmente candidate alle primarie del Partito Democratico in questo momento sono 16: quattro anni fa a questo punto erano zero sia nel Partito Democratico – Hillary Clinton si candidò in aprile, Bernie Sanders a maggio – che in quello Repubblicano. Peraltro le primarie dei Repubblicani nel 2016, considerate affollatissime da tutti gli esperti, ebbero 17 partecipanti. I candidati del Partito Democratico con ogni probabilità supereranno quel numero: la lista non comprende per esempio l’ex vicepresidente Joe Biden, che non ha ancora annunciato ufficialmente le sue intenzioni ma la cui candidatura è considerata molto probabile, così come altri importanti politici che hanno espresso interesse per una candidatura ma non hanno ancora fatto passi formali.
Perché così tanti candidati?
In estrema sintesi, perché Donald Trump è visto come un presidente molto fragile. Il suo tasso di popolarità è estremamente basso, e simile a quello di altri presidenti del passato che non furono rieletti. Il suo partito ha perso malamente le elezioni di metà mandato, perdendo così il controllo della Camera e limitando le possibilità di approvare riforme e ottenere successi legislativi da qui al 2020. I moltissimi scandali che lo coinvolgono – non solo il caso Russia, ma anche i pagamenti all’attrice Stormy Daniels e i dubbi sulla legalità delle operazioni fiscali della sua azienda – sono molto lontani dall’essere conclusi e promettono di tirar fuori ancora nuovi colpi di scena e sviluppi per lui imbarazzanti e dannosi. E d’altra parte le stesse elezioni presidenziali del 2016, che il Partito Repubblicano giocava in discesa – con un elettorato galvanizzato da otto anni di opposizione e una candidata avversaria molto impopolare – furono vinte da Trump per un pelo: grazie ad appena 78.000 voti in Michigan, Pennsylvania e Wisconsin, mentre Hillary Clinton aveva preso in tutto tre milioni di voti in più.
Insomma, dentro il Partito Democratico molti pensano che questa possa essere un’ottima occasione per provare a diventare presidente degli Stati Uniti.
Come si fa a sfidare Trump?
La risposta breve è che bisogna vincere le primarie. La risposta lunga è che le primarie negli Stati Uniti non si tengono in una sola giornata ma durano quattro mesi, con regole a volte leggermente diverse stato per stato. La cosa che ci interessa sapere in questo momento è che la persona candidata dal partito viene scelta durante la convention estiva dai cosiddetti “delegati”, che vengono eletti stato per stato durante le elezioni primarie. I modi in cui vengono eletti questi delegati finiscono spesso per essere determinanti nella definizione della persona vincitrice.
Nel 2016 l’affollamento di candidati del Partito Repubblicano fu risolto dal fatto che la grandissima maggioranza degli stati metteva in palio i delegati con metodo maggioritario: chi prendeva un voto in più degli altri si prendeva tutti i delegati. In South Carolina, per esempio, Trump fu il più votato con circa il 30 per cento dei voti, ma ottenne così tutti i 50 delegati in palio. Questo meccanismo ovviamente compresse molto la rappresentanza degli elettori del partito, ma permise al partito di scremare presto il numero di candidati ed evitare una lotta prolungata, e a Trump di ottenere la maggioranza assoluta dei delegati senza avere la maggioranza assoluta dei voti. Se si arriva alla convention senza un candidato con la maggioranza assoluta dei delegati – la cosiddetta brokered convention – la faccenda va risolta con alleanze, trattative e negoziati: una procedura oscura che spesso genera grandissime accuse e polemiche, e impedisce alla convention di diventare la classica festosa incoronazione del candidato del partito.
Le primarie del Partito Democratico invece seguono logiche diverse, e nella gran parte degli stati distribuiscono i delegati in modo proporzionale tra i vari candidati. Quando i candidati in ballo sono due, come accaduto nel 2016, tutto sommato non cambia niente: quando sono più di due – e in questo momento, come abbiamo visto, sono 16 – il rischio di arrivare alla convention senza un vincitore sono più che concreti.
E questo rischio è aggravato da altri due fattori.
Nessuno gioca per perdere
Non tutte le persone che si candidano alle primarie lo fanno perché pensano di avere qualche possibilità di vincerle: alcune lo fanno per il semplice motivo che è un ottimo modo per farsi conoscere dai giornali e dalla popolazione, ottenere notorietà nazionale, partecipare ai dibattiti televisivi, e poi magari spendere questo capitale in un’elezione per un’altra carica oppure nella speranza di essere scelti come vice o come membro del futuro governo. Questi candidati di solito si ritirano dopo qualche settimana dall’inizio delle primarie, quando non hanno ottenuto grandi risultati elettorali o nella raccolta dei fondi. A questo giro, però, tra i sedici candidati americani ce ne sono moltissimi che fanno sul serio: e hanno talento, staff, organizzazione e fondi per restare a lungo dentro la competizione, accentuando la spalmatura dei delegati su più persone. Ci sono sei senatori, tre deputati e due governatori, per esempio. Forse ci sarà anche un ex vicepresidente. E non esiste un candidato favorito.
Gli stati che si spostano all’inizio
L’altro potenziale problema è che tradizionalmente le primarie arrivano in alcuni degli stati più grandi – e che mettono in palio più delegati – solo dopo qualche mese dal loro inizio, così che siano rimasti in competizione solo i candidati più forti e votati a spartirsi il gran numero di delegati in palio, e uno possa avanzare verso la vittoria. Nel 2020 invece, nel tentativo di ottenere più rilevanza politica e mediatica, i due stati più grandi del paese – California e Texas – hanno deciso di anticipare le loro primarie al 3 marzo, il cosiddetto “Super Tuesday”, solo un mese dopo l’inizio delle primarie, quando è plausibile che quasi tutti i candidati siano ancora in corsa. Vuol dire che il 36 per cento dei delegati in palio in totale sarà assegnato entro un mese dall’inizio delle primarie, in modo proporzionale, e con moltissimi candidati in ballo. Se anche Colorado, Georgia e New York decidessero di anticipare le loro primarie (ci stanno pensando), Wasserman fa notare che si arriverebbe al 46 per cento.
E se non c’è un vincitore?
La convention estiva di Milwaukee non sarebbe organizzata dal candidato vincitore ma dal partito, e non servirebbe a promuovere e presentare al paese il candidato vincitore ma a regolare i conti nel partito: i candidati più forti cercherebbero di ottenere il sostegno degli altri per portare con sé i loro delegati e arrivare alla maggioranza assoluta. Vista la posta in palio, potrebbe facilmente diventare sgradevole, tra accuse di trasformismo, corruzione e incoerenza.
Come nota Wasserman, poi, nascerebbe certamente qualche polemica intorno ai “superdelegati”, i dirigenti e rappresentanti del partito che hanno diritto di voto alla convention. I “superdelegati” tradizionalmente votano confermando la scelta popolare, invece che tradirla, ma vengono spesso usati per creare teorie del complotto: come ricorda Wasserman, ancora oggi alcuni elettori di Sanders pensano che nel 2016 Clinton gli sfilò la vittoria grazie ai “superdelegati”, quando in realtà aveva ottenuto una larga maggioranza sia tra gli elettori che tra i normali delegati. Nel 2020 i “superdelegati” non potranno partecipare al primo voto, per tentare di ridurre le polemiche, ma entreranno in gioco se il primo voto non dovesse essere risolutivo. Tutto questo complesso negoziato interno al partito avverrebbe alla fine di luglio, a poco più di tre mesi dalle elezioni presidenziali, mentre Trump starebbe facendo indisturbatamente da mesi campagna elettorale rivolgendosi direttamente agli americani.