La nuova cucina degli ebrei ultraortodossi

Sono tra le comunità religiose più rigide al mondo e fino a pochi anni fa mangiavano solo piatti tradizionali ed economici: ora non più

Il Guardian racconta come sta cambiando la cucina israeliana: però non quella fatta di bagel al salmone (resa popolare dagli ebrei di New York) o quella a base di hummus e falafel (che va sempre più di moda in tutto il mondo) bensì quella delle comunità ebraiche ultraortodosse, i cosiddetti haredim. Negli ultimi anni, infatti, le cose stanno cambiando anche in questa comunità isolata, ancorata al passato e rigidamente prescrittiva: la nascita di una nuova classe media ha portato alla richiesta di piatti moderni e di migliore qualità e sempre più donne – perché sono loro a cucinare – interpretano la cucina come qualcosa di creativo, «dove mescolare vecchie regole e nuovi filtri di Instagram».

Il termine haredi (haredim al plurale) include diverse sette di ebrei-ortodossi, quelli che interpretano la legge ebraica nel modo più rigido. Li avrete presenti: gli uomini indossano un completo scuro con camicia bianca da cui pendono spesso delle frange, lo tzitzit, hanno la barba e un cappello nero o ricoperto di pelo; le donne portano gonne lunghe fino alle caviglie e coprono anche le braccia, il collo e i capelli, con un fazzoletto o una parrucca. Vivono solitamente in quartieri segregati insieme ad altri haredim, e passano la vita a pregare e studiare i testi sacri: da ragazzini entrano in scuole religiose separate che gli uomini continuano a frequentare anche una volta sposati, ricevendo in alcuni casi uno stipendio.

La maggior parte degli uomini si dedica alla preghiera – secondo dati del 2015 del ministero delle Finanze israeliano lavorava solo il 45,7 per cento di loro – e le loro famiglie, spesso molto numerose, sopravvivono grazie a donazioni di beneficenza o a sussidi statali. A volte sono le stesse donne – che non sono tenute a studiare – a lavorare e portare qualche soldo a casa. Gli haredim al momento sono circa il 12 per cento dei 9 milioni di cittadini israeliani, ma secondo l’Istituto demografico israeliano ne diventeranno un terzo entro il 2065, vista l’alto numero di figli che fanno.

Un forno kosher ultraortodosso a Miami, in Florida, nel 2015 (AP Photo/Lynne Sladky)

Ogni comunità ha le sue regole ma quasi tutte proibiscono la tv, i giornali e i libri non religiosi, e ovviamente internet. «Andare al ristorante è quasi l’unica forma di divertimento per una coppia haredi», spiega al Guardian Tehilla Siton, direttrice della rivista gastronomica haredi Taimot che gestisce anche una pagina Facebook aperta solo alle donne ebree ultraortodosse, con 13 mila iscritte. Siton racconta che ultimamente le cose stanno cambiando e «se un tempo le donne cucinavano solo per i figli e per la casa, ora vivono la cucina come una forma di espressione personale; inoltre le persone guardano i programmi dedicati al cibo su internet e vogliono piatti di maggior qualità».

Non che finora il cibo consumato dagli haredim non fosse accuratamente selezionato. Anche questo aspetto della vita è regolamentato dalle leggi religiose e se gli ebrei osservanti consumano cibo kosher (che significa “permesso”), quello degli haredim deve essere kosher lemehadrin, ovvero la forma più kosher di tutte.

Ci sono infatti diversi livelli: quello base vieta di consumare alcuni tipi di carne, come il maiale, o i molluschi; di mescolare i prodotti caseari con la carne; e consente solo cibo macellato e salato in un certo modo. In generale poi, per essere kosher un cibo deve venire approvato da un rabbino: è qui che le cose si complicano perché esistono interpretazioni più o meno elastiche. Alcune scuole per esempio considerano kosher anche i cibi che potrebbero contenere latte che non lo è, per altre invece è necessario che il latte sia supervisionato dal momento della mungitura: la seconda interpretazione è quella del kosher lemehadrin. I prodotti di questo tipo sono quindi pochi e più difficili da trovare, a meno di vivere nelle comunità haredim.

Per questo la cucina haredi è piuttosto scarna, è cambiata poco e si è limitata a riproporre le stesse ricette con gli stessi ingredienti di sempre.

A questo si aggiunge una certa riprovazione verso gli uomini che mangiano al ristorante e perdono tempo nei bar anziché dedicarlo alla preghiera: il classico ristorante haredi serve su miseri piatti di plastica cibo economico e casalingo, come il tradizionale kugel, uno sformato di pasta o patate. La tradizione gastronomica è quella degli aschenaziti, i discendenti degli ebrei che abitavano in Germania e nell’attuale Europa dell’Est: tra gli altri piatti – che attirano turisti gastronomici in luoghi insospettabili, come il quartiere ortodosso di Mea Shearim a Gerusalemme – ci sono il cholent, uno stufato di manzo, patate, fagioli e orzo cotto per 12 ore; il kishke, una salsiccia fatta con intestino di manzo ripieno di carne; il challah, il pane dello Shabbat; uova sode e collo di pollo ripieno con un impasto simile a quello del kishke.

Il cenone di Capodanno di un gruppo di ebrei ortodossi a Uman, in Ucraina, nel 2018 (Sean Gallup/Getty Images)

Le cose però stanno cambiando, un po’ per la crescita delle comunità haredim e la limitata apertura di alcune, un po’ per l’emergere di una classe medio-alta che ha fatto fortuna nel commercio e nell’industria di diamanti. I figli di queste famiglie continuano a frequentare le scuole religiose insieme ai bambini più poveri, e i loro padri destinano buona parte dei loro patrimoni a sostentare la comunità, che resta così unita. I nuovi ricchi, però, sono spesso interessati a prodotti di maggior qualità, seguono programmi di cucina sulle radio e le tv haredim e chiedono di assaggiare qualcosa di nuovo.

Molti si sono attrezzati nelle cucine di casa, come per esempio Michael Zilbershlag che, non trovando mai cibo lemehadrin al ristorante, ha fondato due anni fa Kosher and Tasty, un’azienda di catering. Da allora è diventata una delle persone che stanno cambiando la cucina haredi, anche attraverso i corsi di catering che organizza ogni mese nella sua casa a Hemed, aperti a tutte le donne israeliane. Come lei, anche Siton – la direttrice della rivista Taimot – si occupa di catering, organizza corsi di cucina, è presente sui social e partecipa ai programmi alla radio per gli haredim che non usano internet.

Nel frattempo anche molti ristoranti si sono interessati alle esigenze di chi mangia cibo lemehadrin, offrendo prodotti certificati e avvalendosi delle nuove imprese di catering haredim; a Tel Aviv, per esempio, ci sono almeno 40 locali di questo tipo, tra pizzerie, steakhouse e ristoranti di pesce. A volte trovare gli ingredienti lemehadrin è complicato, ma questo ha portato anche a nuove sperimentazioni e tentativi, come nel caso di Malky Adler, una cioccolatiera e pasticciera 49enne di Bnei Brak, il quartiere ultraortodosso nella periferia di Tel Aviv.

Adler lavora insieme al marito e ha anche una pagina Instagram dove pubblica i suoi dolci, cosmopoliti e moderni: pasticcini, mousse, frittelle, praline e persino churros e cioccolata. Per lei non è sempre semplice rifornirsi del cioccolato al latte adatto e ha ripiegato su quello kosher vegano, non contaminato da latte non controllato dalla mungitura; in altri casi ha iniziato a usare l’olio di cocco al posto del burro o di altri grassi.

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Questi cambiamenti sono mescolati a resistenze e vecchie tradizioni. Per esempio un giornale religioso che di recente ha raccontato la nuova cucina haredi è uscito in due versioni, una destinata agli uomini dov’erano fotografati solo pasticceri uomini e una per le donne dove compariva anche Adler. In altri casi sono le stesse donne a scambiarsi ricette online con foto e nomi falsi, temendo di compromettere la loro reputazione.

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