L’autonomia regionale, spiegata bene
Le richieste di Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna sono una "secessione dei ricchi"? Quali leggi la regolano? A che punto è il governo?
Giovedì 14 febbraio si è svolto un Consiglio dei ministri durante il quale, tra le altre cose, si è parlato di autonomia regionale: un tema che da tempo coinvolge direttamente alcune regioni italiane, e per questo interessa politici, esperti e giornalisti che ne parlano con posizioni molto diverse. Alla fine dell’incontro il comunicato stampa diffuso dal governo diceva semplicemente che la ministra per gli Affari regionali e le Autonomie, Erika Stefani, «dopo gli incontri bilaterali che ha avuto con i Ministri interessati, ha illustrato i contenuti delle intese. Il Consiglio dei ministri ne ha preso atto e condiviso lo spirito».
Le intese a cui si fa riferimento sono gli accordi preliminari – diversi tra loro – stipulati tra il governo e tre regioni del Nord Italia: Emilia-Romagna, Lombardia e Veneto. Ci sono poi altre regioni a statuto ordinario che hanno dato ai loro presidenti l’incarico formale di chiedere al governo l’avvio delle trattative per ottenere ulteriori forme e condizioni di autonomia. La questione ha dunque una portata piuttosto ampia e le posizioni politiche non sembrano essere ancora chiare.
Intanto: di cosa stiamo parlando?
La concessione di maggiore autonomia alle regioni, a certe condizioni, è prevista dalla Costituzione. Il terzo comma dell’articolo 116 stabilisce infatti che le regioni con i bilanci in ordine possano chiedere di vedersi assegnate maggiori competenze rispetto a quelle previste normalmente per le ragioni a statuto ordinario (quelle a statuto speciale – Sicilia, Sardegna, Valle d’Aosta, Friuli Venezia Giulia e Trentino-Alto Adige – godono già di particolari autonomie). La scuola, per esempio, è una competenza statale che le regioni virtuose potrebbero chiedere di gestire direttamente (naturalmente entro leggi e criteri regolati dallo Stato). L’elenco delle competenze è molto lungo ma esclude una serie di temi, come la tutela dell’ordine pubblico, che rimangono in ogni caso esclusiva competenza dello Stato.
Il terzo comma fu introdotto con la riforma della Costituzione del 2001 e riguarda il famoso Titolo V. Dal punto di vista delle procedure, la concessione dell’autonomia deve essere approvata da una “legge rinforzata” (una legge che presenta cioè un procedimento più complesso per la sua approvazione) e che deve essere votata dalle Camere a maggioranza assoluta.
Di quali regioni si parla?
L’articolo 116 è stato invocato per la prima volta nel 2017. I governi di Lombardia e Veneto avevano organizzato un referendum consultivo, e in entrambe le regioni il “sì” aveva ricevuto la maggioranza dei voti. Essendo consultivi, i referendum non avevano avuto esiti vincolanti né per le regioni né per il governo: quelle votazioni non erano necessarie per poter presentare la richiesta di maggiore autonomia, ma servivano a dare maggiore forza politica alla richiesta. L’Emilia-Romagna ha attivato le procedure senza referendum e dopo un voto in consiglio regionale.
Il 28 febbraio del 2017, sul finire della precedente legislatura, il governo di Paolo Gentiloni aveva sottoscritto con Veneto, Emilia-Romagna e Lombardia tre distinti accordi preliminari, che individuavano i principi generali, i metodi e un primo elenco delle materie oggetto dell’autonomia, in vista della definizione dell’intesa che sembrava dovesse arrivare in tempi piuttosto brevi.
Nel frattempo però ci sono state le elezioni politiche e il lunghissimo iter con cui si è arrivati alla formazione del nuovo governo, sostenuto dall’anomala alleanza tra Lega e Movimento 5 Stelle. Inoltre, con meno clamore, altre regioni hanno intrapreso l’iter per ottenere più autonomia. Nel luglio del 2018 il servizio studi del Senato aveva pubblicato un dossier in cui si diceva che “l’autonomia differenziata” di fatto coinvolgeva già 13 regioni a statuto ordinario su 15. In particolare, diceva che 7 regioni avevano formalmente conferito al loro presidente l’incarico di chiedere al governo l’avvio delle trattative: Campania, Liguria, Lazio, Marche, Piemonte, Toscana e Umbria. Altre 3 regioni non avevano ancora approvato formalmente il mandato, ma avevano assunto iniziative preliminari che in alcuni casi hanno portato all’approvazione di atti di indirizzo (Basilicata, Calabria e Puglia).
Le discussioni politiche
L’anno scorso il nuovo governo sostenuto da Lega e Movimento 5 Stelle ha promesso che avrebbe concesso l’autonomia alle regioni in regola entro l’autunno, ma l’accordo ad oggi non è ancora stato trovato. Qualche mese fa la nuova ministra per gli Affari regionali e le Autonomie, Erika Stefani, aveva accusato esplicitamente i suoi colleghi del Movimento 5 Stelle di aver rallentato il percorso. Il Movimento 5 Stelle ufficialmente è favorevole alla maggiore autonomia concessa alle regioni: è stata inserita nel contratto di governo e Luigi Di Maio lo ha ripetuto più volte, ricordando che il Movimento sostenne i referendum e che era intenzionato a mettere in pratica la volontà degli elettori. In pratica, però, il suo partito non sembra così entusiasta di fronte alle implicazioni che potrebbe avere una concessione di maggiore autonomia alle regioni settentrionali (molto caldeggiata invece dalla Lega).
Alcuni componenti del M5S temono che l’autonomia concessa alle regioni economicamente in salute, e quindi che hanno un maggior gettito fiscale, riduca le tasse normalmente redistribuite a livello statale, e che questo significhi minori risorse a disposizione per le regioni economicamente più in difficoltà, cioè le regioni del Sud. Il M5s chiede dunque garanzie sul fatto che i livelli essenziali delle prestazioni, così come dice la Costituzione, vengano assicurati per tutti: in materia di istruzione e assistenza sanitaria, per esempio, che secondo alcune previsioni in certe regioni potrebbero venire a mancare se passasse l’autonomia.
La posizione del Partito Democratico, che pure ha contribuito a creare le premesse per l’attuale situazione, non è una soltanto. L’ex segretario Matteo Renzi ha detto di essere contrario all’autonomia, mentre il presidente del Piemonte Sergio Chiamparino e quello della Campania Vincenzo De Luca l’hanno sostenuta e concretamente richiesta. Per Silvio Berlusconi, infine, è proprio su questo che «il governo può cadere. E me lo auguro».
Sarà una “secessione dei ricchi”?
Non è ancora chiaro se l’approvazione dell’autonomia differenziata sarà più vantaggiosa per alcune regioni e molto meno per altre. Dipenderà infatti da come verranno assegnate le risorse che corrisponderanno alle nuove competenze delle regioni autonome. Ma anche in questo caso, non è semplice prevedere come andrà.
In generale, ci potrebbero essere due criteri da utilizzare per l’assegnazione delle risorse alle regioni autonome: il costo storico e il costo medio nazionale. Il costo storico indica la spesa pro-capite che una regione effettua in media per una determinata competenza (per esempio la sanità) mentre il costo medio nazionale indica il costo medio pro-capite di quella competenza a livello nazionale. Per esempio: attualmente in Lombardia lo Stato spende 459 euro pro capite per l’istruzione scolastica, mentre ne spende 477 euro in Veneto. Il costo medio nazionale è invece più alto (537 euro). Se l’assegnazione delle risorse alla regione sarà fatta con il criterio del costo storico la Lombardia potrà trattenere una cifra pro-capite pari a 459 euro, se l’assegnazione terrà conto invece del criterio medio la Lombardia potrà trattenere nuove risorse pari a una spesa pro-capite di 537 euro. Il primo criterio sarebbe a saldo zero e senza cambiamenti sul bilancio statale o delle altre regioni, il secondo criterio comporterebbe invece risorse aggiuntive.
Secondo le intese preliminari tra ministero, Lombardia, Veneto e Emilia-Romagna, queste regioni otterranno inizialmente risorse in base al costo storico, quindi in base a quanto già spendevano per una determinata competenza (calcolato nell’anno di approvazione definitiva della richiesta). Sempre secondo l’intesa, però, entro un anno dall’accordo definitivo si dovrebbero definire i fabbisogni standard, ovvero dei parametri a cui legare le spese fondamentali per assicurare un graduale e definitivo superamento del criterio della spesa storica. Una volta definiti i fabbisogni standard, il criterio di assegnazione delle risorse diventerebbe, appunto, quello del costo standard che potrebbe essere più elevato rispetto al costo storico corrente, ma su cui è difficile fare ora delle previsioni per capire se sarebbe svantaggioso per alcune regioni.
La definizione di questi parametri sarebbe affidata a un comitato a cui parteciperebbero tutte le regioni e che potrebbe essere fatta, a sua volta, seguendo diversi criteri. La regione Veneto insiste nel dire che i fabbisogni standard dovrebbero essere legati alla capacità fiscale dei territori, ma questo, ha spiegato il Movimento 5 Stelle, «rischia di far sì che le regioni più ricche abbiano maggiori trasferimenti a scapito da quelle più povere».