“Broken Nature” e come il design potrebbe salvare il mondo
La nuova esposizione internazionale della Triennale di Milano apre domani, oggi la visiterà Mattarella: parla di come gli umani potrebbero salvarsi, o quantomeno «progettare una fine più elegante»
Il 27 febbraio al Palazzo dell’Arte di Milano – quello che si affaccia su Parco Sempione e che molti milanesi chiamano semplicemente “La Triennale” – è stata presentata alla stampa e agli addetti ai lavori la ventiduesima esposizione internazionale della Triennale di Milano, che si chiama Broken Nature: Design Takes on Human Survival. Parla di “natura spezzata”, di quel che non va nel clima e nell’ambiente, di come sia un problema grave e pressante e di come l’uomo, il design, la scienza e la tecnologia potrebbero esserne soluzione. La giornata è stata in qualche modo complice della presentazione: il 27 febbraio a Milano c’erano più di venti gradi, oltre dieci in più rispetto alla media stagionale. Una di quelle cose che qualcuno gradisce e che qualcun altro cita come segno del fatto che qualcosa non va nel nostro clima.
Le cose pratiche, per cominciare. Broken Nature: Design Takes on Human Survival si potrà visitare dal primo marzo al primo settembre: il biglietto pieno costerà 18 euro e il 15 marzo per gli studenti la visita sarà gratis. L’inaugurazione avverrà oggi, ci sarà anche il presidente della Repubblica Sergio Mattarella. L’ha curata Paola Antonelli – curatrice del dipartimento di Architettura e Design presso il Museum of Modern Art di New York e direttore ricerca e sviluppo dello stesso museo – insieme ad Ala Tannir, Laura Maeran e Erica Petrillo. Si chiama “esposizione universale” perché la Triennale (intesa come associazione) fa parte dell’ente a cui rispondeva anche Expo. La ventunesima edizione era stata nel 2016; la ventesima vent’anni prima (c’erano stati dei problemi, tra una e l’altra).
Sul sito della Triennale, Broken Nature è descritta così: «Un’indagine approfondita sui legami che uniscono gli uomini all’ambiente naturale e che nel corso degli anni sono stati profondamente compromessi, se non completamente distrutti. Broken Nature, analizzando vari progetti di architettura e design, esplora il concetto di design ricostituente e mette in luce oggetti e strategie, su diverse scale, che reinterpretano il rapporto tra gli esseri umani e il contesto in cui vivono, includendo sia gli ecosistemi sociali che quelli naturali».
Nel presentare Broken Nature il presidente della Triennale, Stefano Boeri, ha detto che parla delle «grandi questioni del futuro della nostra specie». Il sindaco di Milano Giuseppe Sala ha invece detto che parla di come il design possa «ricucire il rapporto strappato tra uomo e natura». Alcuni giorni prima dell’apertura dell’esposizione, Antonelli aveva detto al Corriere della Sera: «Se governi e strutture di potere non considerano con sufficiente serietà l’impellenza delle problematiche ambientali, forse i designer sono i veri capofila del cambiamento. Il design può offrire non solo creatività tattica, ma anche messa a fuoco e strategia». A quelli che pensano che sia troppo tardi e la nostra specie sia ormai spacciata, risponde un testo visibile entrando a Broken Nature: «Anche a chi crede che la specie umana si estinguerà in un futuro (prossimo? remoto?), il design offre gli strumenti per progettare una fine più elegante».
Ma è il caso di entrare un po’ più nei dettagli: Broken Nature è composta da più di cento opere e installazioni, alcune fatte apposta per l’occasione, che arrivano da più di 20 paesi di tutti e cinque i continenti. Visitando l’esposizione sui due piani del Palazzo dell’Arte si trovano sculture, videoinstallazioni, immagini che colpiscono esteticamente e necessitano di poche spiegazioni, grandi e complessi progetti pieni di numeri e dati. In alcuni casi prevalgono scienza e tecnologia, in altri arte e design: in molti tutte queste cose sono unite tra loro.
Paola Antonelli, la curatrice, ha detto che è un’esposizione che ha l’ambizione di «raggiungere il grande pubblico» per dare vita a «impulsi che possano generare reazioni a catena». Parlando di alcune aree della mostra, dice che sembrano «un museo di storia naturale del futuro», e che l’esposizione passa a volte «da un punto di vista quasi cosmico agli oggetti del quotidiano». Nelle prime tre righe di spiegazione che leggerà chi visiterà Broken Nature si spiega che la natura è tutto, «dal microbioma al cosmo, competa delle sue forme sociali e politiche».
In effetti, visitando l’esposizione, capita di vedere da un lato un’installazione che prova a raccontare in musica la fine della vita di una stella e, dall’altro, a pochi metri di distanza, uno studio dell’impatto dei fiori di loto sull’ecosistema del bacino fluviale di Mantova. Si passa da una scultura di «creature ibride umani-animali che si abbracciano» a una scultura fatta con alghe.
Si può sentire il profumo di un fiore estinto “ricreato” o ascoltare, in un’esperienza molto immersiva, “The Great Animal Orchestra”: è fatta grazie alle migliaia di ore di registrazione raccolte dall’artista Bernie Krause e permette di ascoltare e vedere – grazie a degli spettrogrammi – dei “paesaggi sonori del mondo animale”.
A Broken Nature si può vedere «il paesaggio e la storia della Siria attraverso uno spaventapasseri», sentire parlare di «fitomineralizzazione» delle piante e di «melanina come forma architettonica». Osservare come un piccolo polpo interagisce con una conchiglia – simile a quella che gli antenati dei polpi usavano moltissimo tempo fa – per documentare «l’intimo legame tra il cefalopode e il suo habitat ancestrale». Analizzare «la vasta rete planetaria che sta alla base della nascita, vita e morte di una singola unità Amazon Echo». Assistere a una ipotetica secessione territoriale della barriera corallina australiana. Scoprire la storia di Thomas Thwaites, che ha «cercato di diventare una capra per sfuggire all’angoscia intrinseca dell’essere umano» e per farlo ha passato tre giorni a quattro zampe con una mandria di capre, progettando per l’occasione apposite protesi per stare a quattro zampe.
Un grande spazio, chiaramente separato dal resto dell’esibizione, è dedicato alla “Nazione delle piante”, presentata con una sua bandiera e costituzione. Il curatore è il neurobiologo vegetale Stefano Mancuso, che se ne definisce portavoce e spiega che l’area da lui curata è «un’esposizione delle possibili soluzioni vegetali». Ci sono video che mostrano la competizione o la cooperazione tra due piante di fagiolo, informazioni sull’accelerazione del polline del Cornus Canadensis (24mila m/s²), una spiegazione del Populus Tremuloides, detto anche Pando, che è «una pianta così longeva che la sua vita abbraccia quasi l’intera storia dell’umanità». C’è anche un dato secondo il quale le piante costituiscono l’81,1 per cento del peso della materia vivente e gli esseri umani solo lo 0,01.
L’ambizione di Broken Nature si capisce comunque sin dalla prima opera che si vede iniziando la visita. Si chiama The Room of Change, è stata commissionata allo studio italiano Accurat ed è «un’installazione composta da una sorta di arazzo di dati, che illustra come molteplici aspetti del nostro ambiente siano cambiati nei secoli passati, come stiano ancora cambiando e come probabilmente cambieranno in futuro». È un’installazione complessa, che prova a interpretare la storia (passata e futura) del mondo guardandola da otto macro punti di vista (natura, universo, regno animale, società, felicità, scienza e tecnologia) ognuno a sua volta diviso in alcuni altri sottopunti, tutti in un’unica rappresentazione. È senza dubbio l’infografica più complicata che mai vi capiterà di vedere, ma di certo una delle più artistiche.