Goa non è più un posto per fricchettoni
Il piccolo stato indiano che fino agli anni Settanta ospitava hippie da tutta l'Europa è oggi meta del turismo di massa interno, e gli abitanti non ne sono molto felici
di Daniele Conti
Tra gli anni Sessanta e Settanta, Goa, piccolo stato federato sulla costa occidentale dell’India e sul Mar Arabico, era una delle mete preferite degli hippie occidentali. In un passaparola alimentato dai bassi costi della vita, dalla bellezza delle sue spiagge e dalla disponibilità di droghe, Goa aveva acquisito notorietà mondiale e il suo nome era stato stabilmente associato alla cultura hippie.
Ma da allora le cose sono molto cambiate, ha spiegato in un articolo il New York Times.
La comunità hippie di Goa è oggi quasi del tutto scomparsa, soprattutto a causa dell’aumento del costo della vita e delle guerre che, dalla fine degli anni Settanta, resero impossibile l'”hippie trail”, cioè il viaggio intrapreso da moltissimi europei a partire dalla seconda metà degli anni Cinquanta per raggiungere l’Asia meridionale, spesso con mezzi di fortuna. In più, il governo di Goa scelse a un certo punto di iniziare a regolarizzare le piccole attività commerciali degli hippie, per lo più basate sul baratto: una decina di anni fa il governo impose ai piccoli commercianti il pagamento delle tasse e l’acquisto di licenze commerciali mettendo in difficoltà le già fragili attività economiche della comunità hippie.
Nel frattempo, grazie al successo dell’economia indiana degli ultimi tre decenni e alla conseguente nascita di una classe media prima inesistente, Goa ha iniziato a diventare una destinazione del turismo di massa degli indiani.
«Goa non è più Goa: ora è India», ha spiegato David D’Souza, gestore di un ex ristorante sulla spiaggia che ha poi convertito in un night club. «Arrivano moltissimi giovani indiani che hanno fatto un sacco di soldi, e vogliono soltanto spenderne il più possibile: oggi è molto più yuppie».
Il concetto di vacanza è recente per moltissimi indiani, un prodotto dello sviluppo economico. Secondo una stima dell’ONU, nel 2022 partiranno dall’India 50 milioni di turisti, rispetto agli 8 milioni di dieci anni fa.
Tuttavia, sebbene l’economia dell’India negli ultimi 18 anni sia cresciuta in media del 7 per cento, una tipica famiglia indiana con reddito medio continua a guadagnare eccezionalmente meno della sua omologa occidentale. Per questo motivo i flussi turistici della popolazione sono diretti principalmente verso mete nazionali, in posti come Goa. Il numero di turisti che ogni anno raggiungono Goa è circa cinque volte il numero dei suoi abitanti, i goani, che sono circa 1,5 milioni.
Ma sebbene il turismo abbia avuto effetti positivi sull’economia locale, molti goani sono infastiditi da alcune conseguenze. La maggior parte dei turisti proviene dal nord dell’India, dove sono diffusi usi e costumi particolarmente rigidi e conservatori per uno stato abituato ai visitatori occidentali per quanto attratti dalle culture indiane. Molti turisti odierni, per esempio, vogliono mangiare cibo vegano (l’induista osservante non mangia carne), fanno il bagno nel mare vestiti e fotografano le donne in bikini come un’attrazione locale.
I goani si riferiscono alla propria cultura, che ritengono più aperta e tollerante, col termine “susegad”, che identifica il sentimento di serenità e appagamento che si proverebbe nel vivere a Goa: e temono che possa essere messa a rischio dall’esposizione agli influssi culturali provenienti da altre zone dell’India.
“Goa era quel posto in cui potevi essere chi volevi” ha detto al New York Times Stafford Braganza, originario di Goa ma che attualmente vive e lavora a Mumbai. Nonostante la corte suprema dell’India abbia depenalizzato l’omosessualità lo scorso anno, Braganza, che ha 45 anni ed è gay, dice che la presenza di turisti dall’India settentrionale lo fa sentire meno libero e meno “susegad”.
Non che il periodo hippie di Goa fosse del tutto privo di tensioni o spaesamenti: Braganza ricorda anche che da bambino sua madre gli impediva di andare in spiaggia perché gli hippie facevano spesso il bagno nel mare nudi. “La mentalità aperta dei goani consentì alla cultura hippie di fiorire” ha spiegato Elisabeth Ramnacher, una donna tedesca arrivata qui negli anni Ottanta e che oggi è proprietaria di un popolare bar della zona, “ma noi hippie occidentali probabilmente andammo troppo oltre”. Negli anni Ottanta il turismo hippie di Goa provocò delle frizioni con la popolazione locale: rispetto agli anni Sessanta e Settanta, i raduni e le feste sulle spiagge assunsero dimensioni sempre maggiori, e aumentarono anche i casi di tossicodipendenza da oppio ed eroina e i decessi per overdose. Si formò un movimento delle famiglie goane, preoccupate per la sicurezza dei propri figli, e le autorità locali dovettero intervenire per limitare gli eccessi dei raduni hippie.
Oggi a Goa si possono trovare ancora le tracce degli originali mercati hippie, ma i pochi venditori rimasti sanno di non avere prospettive. “I nostri giorni liberi e senza regole sono finiti” ha raccontato Michelle Antonio, un commerciante italo-brasiliano di oggetti di artigianato. Antonio ha 53 anni e vive a Goa da circa 25. “Sì, c’è stato un giro di vite nei nostri confronti” riconosce, ma si dice grato per tutto il tempo che ha trascorso qui. “Nei nostri paesi di origine, non siamo così accoglienti verso gli stranieri. Non concederemmo a nessuno una vita ‘susegad’ così a lungo”.