I bambini rapiti da Israele, sessant’anni fa
Furono sottratti a centinaia alle famiglie povere e dati in adozione a quelle più ricche, racconta il New York Times, in un caso sul quale si è cominciato a fare chiarezza solo da poco
di Daniele Conti
Il New York Times ha raccontato la storia di diversi bambini protagonisti di un fenomeno poco noto dei primi anni di storia dello stato di Israele, dalla fine degli anni Quaranta e per tutti gli anni Cinquanta. In quel periodo, centinaia di neonati e bambini furono sottratti alle loro famiglie, generalmente povere e a cui veniva detto che era morta, per essere poi dati in adozione a famiglie senza figli aschenazite, cioè a famiglie ebree di origini centro-europee, più ricche. È un caso su cui ci sono denunce e testimonianze da decenni, ma sul quale soltanto negli ultimi anni si è cominciato a fare chiarezza.
Dopo la fondazione di Israele, moltissime famiglie ebree di ogni regione del mondo si trasferirono nei nuovi territori dello stato, e vennero alloggiate in campi di accoglienza provvisori. Erano delle tendopoli che lo stato allestiva per far fronte alla scarsità di case, e nelle quali le condizioni di vita erano piuttosto dure. Secondo i racconti di molte famiglie, simili tra loro, alle donne che partorivano negli ospedali o ai genitori che lasciavano il proprio neonato in uno studio medico per farlo visitare veniva detto che il loro bambino era improvvisamente morto. Altri genitori venivano invitati a lasciare il figlio in un asilo durante il giorno, e quando tornavano a riprenderlo veniva spiegato loro che il bambino era stato portato in ospedale, dove era poi morto. A queste famiglie non furono mai mostrati un corpo o una tomba, come testimonianza della morte dei loro figli: molte non ricevettero neppure un certificato di morte.
Ci sono più di mille casi registrati di sparizioni avvenute durante quegli anni, anche se secondo stime di avvocati che si sono occupati di alcuni di questi casi le sparizioni potrebbero essere state circa 4.500. Questa vicenda viene comunemente chiamata “casl dei bambini yemeniti”, perché la maggior parte dei bambini scomparsi appartenevano a comunità ebraiche yemenite o ad altre comunità “Mizrahi”, cioè a comunità ebraiche di provenienza nordafricana o mediorientale. Le famiglie di questi bambini ritengono che i loro figli siano stati rapiti dalle autorità di Israele, e che siano stati dati illegalmente in adozione.
La reporter Malin Fezehai ha raccontato le storie di alcuni bambini scomparsi in quel periodo e dei loro familiari. Tra queste c’è quella di Yehudit Yosef, una donna che oggi ha 91 anni, e che un giorno del 1949 portò suo figlio Rafael in ospedale perché aveva la febbre. Qualche giorno dopo ricevette la telefonata di un’infermiera che la informava che suo figlio era morto. Cinquant’anni dopo Yosef ricevette il certificato di morte del figlio, insieme alle scuse dell’ospedale per il ritardo.
A Margalit Ronen, invece, arrivata in Israele dall’Iran nel 1949 quando era incinta di 8 mesi, furono tolte le sue due figlie gemelle subito dopo aver partorito. I medici la invitarono a lasciare le bambine in ospedale per qualche giorno prima di riportarle nel campo di accoglienza dove viveva, così che nel frattempo potesse riposarsi dopo le fatiche del parto. Ronen, che oggi ha 92 anni, ha raccontato a Fezehai che quando telefonò all’ospedale per avvisare che stava per tornare a prendere le due figlie, qualcuno le rispose che proprio quella mattina erano morte entrambe e che non c’era più motivo che lei andasse in ospedale.
Questo scandalo guadagnò l’attenzione nazionale nel 1994, quando il rabbino Uzi Meshulam e i suoi seguaci si barricarono armati in un complesso di edifici nella città di Yehud chiedendo al governo di aprire un’indagine ufficiale per fare chiarezza sulle sparizioni. Ne seguì una sparatoria con la polizia, durante la quale uno dei seguaci di Meshulam rimase ucciso. Il rabbino e gli altri seguaci furono arrestati. All’epoca, quasi tutti gli israeliani liquidarono le denunce di Meshulam come la teoria complottista di un estremista religioso.
Tuttavia, già l’anno successivo il governo istituì una commissione col compito di esaminare più di mille casi di bambini scomparsi. Era la terza commissione d’inchiesta istituita formalmente dal governo su questo tema a partire dagli anni Sessanta. Come era già avvenuto per le volte precedenti, nel 2001 la commissione concluse che non c’erano le basi per sostenere che lo stato avesse qualche responsabilità nelle sparizioni. Secondo i risultati dell’inchiesta la maggior parte dei bambini dichiarati morti erano morti davvero, mentre sulla sorte di circa 50 bambini la commissione dichiarò di non essere riuscita a scoprire nulla. Le famiglie e i loro avvocati reagirono mettendo in dubbio la condotta e la credibilità dei membri della commissione.
Nel suo articolo Fezehai racconta che negli ultimi anni sta crescendo un movimento formato da nuove generazioni di israeliani di origine yemenita (e da attivisti della comunità Mizrahi in generale) che cercano di fare pubblicamente pressione perché le sparizioni vengano ufficialmente riconosciute dalle autorità come rapimenti pianificati. Di questo movimento fanno parte anche Naama Katiee e Shlomi Hakuta, che insieme hanno fondato AMRAM, un’organizzazione no profit che finora ha raccolto sul suo sito più di 800 testimonianze di famiglie coinvolte nel caso.
Parlando della fondazione di Israele, Katiee ha raccontato a Fezehai che «all’epoca si pensava che fosse necessario crescere una nuova generazione che si distinguesse dalla vecchia comunità “primitiva”». Negli anni immediatamente successivi alla nascita dello stato ebraico, si trasferirono in Israele ebrei provenienti da più di 80 paesi e appartenenti a molti gruppi etnici diversi: tutti desideravano prendere parte al progetto di forgiare una nuova e condivisa identità israeliana. Tuttavia, le comunità yemenite e le altre comunità di ebrei Mizrahi erano tendenzialmente povere, più religiose e meno istruite degli ebrei aschenaziti provenienti dall’Europa. Questi ultimi, che costituivano la classe dirigente del nuovo stato, si ritenevano superiori agli ebrei provenienti dal Medio Oriente e dal Nord Africa e desideravano imporre loro la propria idea di Israele moderno.
«Il metodo che adottarono per crescere le nuove generazioni fu quello di allontanarle dalle loro radici, e di tagliare ogni tipo di collegamento con esse» ha spiegato Katiee, aggiungendo che episodi simili si verificarono anche in altre parti del mondo: per esempio in Australia, dove il governo decise di sottrarre i figli alle famiglie di discendenza aborigena e delle Torres Strait Islands, o in Canada, dove tra gli anni Sessanta e Ottanta molti bambini delle comunità indigene furono tolti con la forza ai genitori per essere assegnati a famiglie bianche del Canada o degli Stati Uniti.
Fezehai spiega che di tanto in tanto in Israele persone date per morte da bambini negli anni Quaranta e Cinquanta riescono a ricongiungersi alle loro famiglie biologiche grazie a ricerche basate sull’analisi del DNA. Questi casi, insieme a testimonianze di persone che all’epoca lavorarono come infermieri e che oggi confermano la tesi dei rapimenti, contribuiscono a mantenere costante l’attenzione pubblica sullo scandalo.
Negli ultimi anni il governo israeliano ha cercato di mostrare maggiore trasparenza su questo tema. Nel 2016 il primo ministro Benjamin Netanyahu incaricò un membro del governo, Tzachi Hanegbi, di riesaminare i documenti e le testimonianze relativi alle sparizioni, riconoscendo implicitamente le lacune delle indagini delle tre commissioni precedenti. Al termine del suo lavoro Hanegbi dichiarò in televisione che “centinaia” di bambini furono sottratti ai genitori senza il loro consenso: era la prima volta che un membro del governo confermava pubblicamente la tesi del rapimento. A dicembre dello stesso anno furono resi pubblici più di 200 mila documenti riservati dell’archivio di stato: contenevano dossier sui bambini, registri degli ospedali e certificati di sepoltura.
L’anno scorso, inoltre, il parlamento israeliano ha approvato alcune leggi che consentono alle famiglie di richiedere l’esumazione delle tombe e l’accesso ai documenti relativi alle adozioni. In precedenza soltanto i figli adottati potevano accedervi, una volta diventati maggiorenni. Fezehai scrive però che la lentezza delle procedure e le discrepanze che sono state riscontrate tra i documenti hanno contribuito ad aggravare la sfiducia delle famiglie nei confronti dello stato.