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  • Giovedì 21 febbraio 2019

I vulcani islandesi, e le loro storie

Qui ce ne sono due dal primo libro di un autore italiano pubblicato da Iperborea, "Il libro dei vulcani d'Islanda" di Leonardo Piccione

Un momento dell'eruzione del vulcano Eyjafjöll, vicino a Hvolsvöllur, in Islanda, il 5 maggio 2010 (AP Photo/Brynjar Gauti)
Un momento dell'eruzione del vulcano Eyjafjöll, vicino a Hvolsvöllur, in Islanda, il 5 maggio 2010 (AP Photo/Brynjar Gauti)

A fine gennaio Iperborea, la casa editrice specializzata in narrativa dei paesi nordici, ha pubblicato per la prima volta un libro scritto da un autore italiano. Ha fatto eccezione perché il libro parla di un paese nordico: l’Islanda. Si intitola Il libro dei vulcani d’Islanda. Storie di uomini, fuoco e caducità ed è il primo libro di Leonardo Piccione, un 31enne che d’estate vive a Corato, in provincia di Bari, e d’inverno a Húsavík, una città del nord dell’Islanda famosa soprattutto per il whale watching. Lì lavora al Museo dell’Esplorazione, uno dei tanti piccoli musei islandesi, e ha potuto raccogliere le 47 storie che compongono il suo libro: non un diario di viaggio («perché di diari di viaggio sull’Islanda ne esistono in gran quantità») ma un catalogo dei suoi vulcani e di storie, molto vecchie o contemporanee, messe insieme «per il gusto di farlo», perché belle e interessanti.

Ogni storia è preceduta da qualche informazione sul vulcano a cui è legata, dal significato del suo nome (una nota all’inizio del libro spiega anche come provare a pronunciare bene le lettere dell’alfabeto che non abbiamo) all’anno dell’ultima eruzione. Qui ne pubblichiamo due, entrambe legate all’Islanda di oggi, ma moltissime invece parlano della sua storia, di personaggi delle saghe medievali e di chi visitò o andò a vivere sull’isola nell’Ottocento, come l’artista inglese William Morris o Hans Jonathan, il primo islandese nero della storia. Se poi fate parte della categoria degli impallinati di tutto ciò che riguarda l’Islanda, oppure pensate di andarci in vacanza l’estate prossima e vi state preparando, Piccione ha anche messo insieme una playlist di musica legata in qualche modo al suo libro e da qui lo potete seguire su Instagram, per vedere com’è l’Islanda d’inverno.

Domani, 22 febbraio, Leonardo Piccione parlerà di Il libro dei vulcani d’Islanda a Milano, durante i Boreali, il festival di Iperborea. La presentazione sarà alle 19 al Teatro Parenti – e sarà seguita da un incontro organizzato dal Post.

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ÞRÍHNÚKAGÍGUR
– o di un camino vulcanico aperto al pubblico

Óda studia lettere antiche e progetta di lasciare l’Islanda. Non per sempre, almeno per un po’. Dice che può sembrare incredibile ma è così, i suoi polmoni sono esausti di quest’aria che commetti peccato anche solo a respirarla. Le leggi della rifrazione, che spezzano i tramonti e confondono i punti cardinali, come se l’Islanda galleggiasse in una palla di vetro senza orientamento se non quello deciso dalla mano (di chi? di Dio forse? è questo infine il compito di Dio?) che di tanto in tanto la capovolge e dà di che affaccendarsi agli uomini che vi sono intrappolati dentro, illudendoli che i loro affanni abbiano uno scopo – questi capricci incorreggibili della luce islandese hanno fatto venire i crampi alle iridi di Óda.

Vorrebbe trasferirsi in Inghilterra, o nel continente, comunque in un posto dove i confini non si osservino ma si attraversino. In una capitale che non sia una specie di parco tematico dove i visitatori superano in numero i residenti e i residenti diventano spettatori della drammatizzazione di se stessi, presi come sono dal tentativo di mascherare l’impreparazione del Paese alla brutalità del mondo moderno, di ridefinire la propria identità in questo perpetuo fluttuare fra eccezionalismo e internazionalità, fra tradizione e progresso, vita vera e Lonely Planet, tetti in lamiera ondulata e palazzoni – cos’ha a che fare l’idea di grandezza con l’Islanda?

Vorrebbe trascorrere del tempo in una città dove l’aria puzzi di smog e di centralità, e la vita proceda a un ritmo tale da impedire alle domande di sostare troppo a lungo nella stessa ansa del proprio emisfero destro. Adesso tuttavia Óda è nella parte embrionale del suo progetto, quella in cui si mettono da parte i risparmi per il viaggio. D’estate arrotonda accompagnando piccoli gruppi di turisti dentro un vulcano.

Il camino del Þríhnúkagígur – cioè la via di fuga che si apre il magma ogni qual volta la camera d’attesa che lo accoglie non basta più a contenere la sua brama di superficie – è l’unico al mondo aperto al pubblico. Dal 2012 sul cratere del vulcano è installato un montacarichi che traduce scienziati e coraggiosi di ogni sorta nelle viscere della montagna.

Il viaggio al centro della Terra comincia in un punto di ritrovo a due chilometri dal cratere. Qui Óda munisce tutti di elmetto e impermeabile, i meno giovani anche di bastoni da hiking: tiratevi su le cerniere, c’è un’ora di cammino prima del vulcano. Il sentiero è accidentato, la visibilità minima, il vento implacabile e gli alberi dileguati. È quasi sempre così, ancor peggio dopo un giorno limpido, il prezzo del sole si paga in tempeste.

A metà percorso, sulla sinistra, una carriola è rovesciata da chissà quanto. Óda suggerisce sia opera degli elfi che vivono tra i massi, e che in pochissimi riescono a vedere. Gli elfi discendono dai figli che Eva nascose quando Dio andò a visitare lei e Adamo: Eva si vergognava di mostrare i figli che non aveva ancora lavato, e così Dio, sapendo nella sua onniscienza dell’esistenza di quei bambini, promise che ciò che era stato nascosto a lui sarebbe stato per sempre nascosto agli uomini. Da allora i discendenti di quei bambini dimorano tra le pietre, e gli esseri umani non possono vederli – a meno che non siano gli elfi stessi a volerlo.

Al giorno d’oggi il «popolo nascosto» è ancora più nascosto. Un antropologo sostiene sia per via dell’elettricità: da quando gli interni di tutte le case rilucono, i paesaggi esterni appaiono per contrasto più scuri. La condizione di perenne penombra che nei secoli ha popolato di presenze la natura islandese è ormai quasi impossibile da sperimentare. Nonostante tutto, non passa giorno senza che qualcuno dei camminatori diretti al Þríhnúkagígur assicuri a Óda di aver scorto due o tre elfi.

Alle pendici del vulcano c’è un container dove ci si riposa e si attende il proprio turno di discesa. L’hanno trasportato a pezzi, in elicottero. Dentro ci sono calore, zuppa di pecora, una cartina ingiallita dell’Islanda e connessione Wi-Fi stabile. Poi si scende. Il montacarichi accoglie tra inquietanti vibrazioni gruppi di sei-sette persone alla volta più Óda e Arnar, il suo fidanzato-geologo. Centoventi metri più sotto, il camino vulcanico è una stanza grande come cinque campi da basket e alta due volte la Hallgrímskirkja, la chiesa più imponente di Reykjavík. Le pareti sono paonazze, pare abbiano trangugiato magma fino a pochi minuti prima della venuta degli ospiti. Ma in realtà Þríhnúkagígur è un gigante senz’anima: inattivo da millenni, qualcuno dice sia estinto per sempre.

Mentre dalla botola d’ingresso alcune gocce di pioggia ricordano che là fuori c’è sempre umida l’Islanda, Óda racconta che una volta lei e Arnar sono scesi nel vulcano da soli. Era il compleanno di lui, Óda gli aveva preparato una torta con sopra una candela a forma di cactus, spenta: aveva prenotato i biglietti per una vacanza nella Bassa California, ma si era dimenticata l’accendino. «Rimanemmo senza fuoco dentro un vulcano. Assurdo, non vi pare?»

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KRÝSUVÍK
– o del portiere che ha preso le scale verso il successo

Due ex innamorati passeggiano sulle sponde opposte di un lago, o quello che parrebbe un normalissimo lago e invece è un avvallamento tumultuoso: una volta lì un geyser è esploso, ha generato una di quelle depressioni che i geologi chiamano maar ma che l’acqua più sbrigativamente interpreta come «spazio da riempire». I due passeggiano e cantano, hanno sguardi intensi e voci piene. A un certo punto il vento consegna nelle braccia di lui un foulard appartenuto a lei. La musica allora si ferma, il violino tace. Anche la neve trattiene il fiato. Lui alza lo sguardo e la intravede, algida. L’abito bianco le dà un’aria mistica: quella donna misteriosa è un angelo, forse un elfo, a ogni modo resisterle è un bel guaio. Dopo un breve inseguimento i due si ricongiungono, si urlano a vicenda che non potranno mai dimenticarsi l’uno dell’altra. Never forget what I did, what I said. Infine scende la notte. Mentre un’aurora boreale squarcia le tenebre, la musica sfuma in un ululato di tempesta. Lui non riuscirà più a trovare pace. Oh, I still believe that you’ll remember me.

Per rendere in immagini lo struggimento di Greta Salóme, emergente pop star di Reykjavík, Hannes Þór Halldórsson aveva scelto l’area vulcanica di Krýsuvík. La ballatona «Never forget» avrebbe rappresentato l’Islanda all’Eurofestival 2012, e la Saga Film aveva indicato lui per la direzione del videoclip ufficiale. Dopo un numero di spot pubblicitari – gelati, bevande proteiche, ortaggi e cereali – finalmente gli avevano assegnato un compito di rilievo, e il promettente regista si era convinto che quella catena ininterrotta di solfatare gorgoglianti e pozze di fango bollente fosse lo sfondo ideale per esaltare la storia non troppo originale di un amore finito presto. Alla fine «Never forget» si piazzò soltanto ventesima, ma l’Eurofestival è comunque un affare piuttosto serio in Islanda; girare il video di una canzone che vi partecipa, un passo di tutto rispetto per un regista. Halldórsson insomma poteva intravedere davanti a sé un’allettante carriera nello spettacolo. Eppure pochi mesi dopo «Never forget» decise di chiedere un periodo di aspettativa alla Saga Film: a ventinove anni aveva firmato il suo primo contratto da calciatore professionista. Era il nuovo portiere del Brann, in Norvegia.

Il punto è che per Halldórsson calcio e cinema sono sempre stati fonti di uguale piacere; dirigere una troupe è poi così diverso dal comandare una difesa? Comincia a giocare a sei anni, in porta, come un tempo già suo padre. Ha talento, uno dei ragazzini di Reykjavík più a loro agio tra i pali, sta’ a vedere che il quartieraccio di Breiðholt tira fuori un calciatore vero, dicono in giro. Peccato che a quattordici anni la promessa si lussi una spalla in un’uscita di snowboard. Nelle sei stagioni successive prova a ricominciare ad allenarsi per cinque volte, e per cinque volte articolazione e sogno si slogano. Decide allora di operarsi e dedicarsi allo studio. Sostituisce il pallone con la videocamera, pure il cinema ha i suoi campi, se ci si fa caso, solo senza porte. La prima produzione dell’Halldórsson-regista è un cortometraggio girato con gli amici, una commedia d’azione con protagonista un eroe vestito male, una specie di Superman ma con un che di ridicolo: lo chiama Swimmingman, pare un poco più islandese e va bene per cominciare.

E il calcio, che fine ha fatto l’idea di diventare un giocatore vero? gli chiede il padre un giorno di fine 2003. Per il cinema hai tutta la vita, Hannes caro, ma lo sport, quello è un fiore della gioventù, sei sicuro di non volerci provare un’altra volta, tu che eri così portato, tu che chissà dove potresti arrivare adesso che il calcio in Islanda non è più solo il passatempo dell’estate, stanno costruendo i campi al coperto, il governo investe sul pallone, magari un giorno ti ritrovi di fronte Buffon, non era lui il tuo grande idolo? Dovresti concederti un’altra possibilità, figliolo, dammi retta.

Hannes lo fa. Quattro tute spesse, una sopra l’altra, e di nuovo al campo, o meglio vicino al campo, un muro di cemento contro cui calciare la palla e riprenderla al volo, atterrando sulla ghiaia grossa senza lasciarsi sfuggire la sfera, non c’è preparazione migliore per un portiere di Breiðholt. L’Halldórsson-portiere si allena tutto solo per giocare nella squadra del quartiere, terza serie islandese. Esordisce con il Leiknir all’ultima partita della stagione 2004, quella decisiva per la promozione, il titolare si è fatto espellere nell’incontro precedente e così tocca a lui, vent’anni e non una presenza in alcun campionato di alcun paese. E cosa combina l’esordiente Halldórsson? Sbaglia un rinvio e regala un gol agli avversari. Nessuna promozione, dunque, e nessun futuro nel calcio per uno così, forse non è proprio destino questo del pallone, sarebbe il caso di smettere una volta per tutte, se non fosse che Hannes ha un padre veramente cocciuto, un ultimo tentativo e poi basta, gli dice, o arrivi in serie A entro tre anni o non giochi più.

Prima della stagione 2005 Halldórsson telefona a tutte le squadre della terza categoria islandese. Garantisce di poter giocare gratis, non c’è problema, e alla fine trova chi gli dà un’altra possibilità, una sola squadra in tutto il campionato, forse all’Afturelding non avevano visto il video della sua immane papera, o forse sì, fatto sta che lui gioca una stagione perfetta, para tutto quello che può parare, si allena ogni giorno due ore più degli altri. L’anno dopo lo vuole lo Stjarnan, in Serie A, poi il KR di Reykjavík, la squadra più forte del Paese. Infine, nel 2011, la Nazionale. Prima presenza con l’Islanda a ventisette anni, da portiere part-time, seguita da tante altre – necessariamente col pc in ritiro, tuttavia, tocca pur sempre lavorare all’ultimo videoclip, never forget what I did, what I said. E a un tratto tutto cambia. Arrivano il Brann, la Norvegia, il professionismo, la qualificazione a un Mondiale sfuggita per un soffio (nel 2013) e quella a un Europeo raggiunta in scioltezza (nel 2015). Al lavoro gli dicono fai pure il calciatore, nostro caro Hannes, ti teniamo il posto finché torni – se torni – ma prima va’ a giocarti questo Europeo, e alza gli occhi verso le tribune ogni tanto, ci riconoscerai, l’Islanda è piccola, ti rendi conto di quel che stai facendo? La parete di cemento contro cui tiravi il pallone da ragazzino l’hanno chiamata «il muro di Hannes», è già quasi un monumento.

All’Europeo l’Islanda supera il girone e batte l’Inghilterra, arriva fino ai quarti di finale. Mentre la sua scrivania alla Saga Film continua a impolverarsi, Halldórsson viene eletto miglior portiere della prima fase: con un totale di 27 interventi è quello che ha parato di più nella competizione. Ma non gli basta. Al ritorno a casa appende sopra il letto il logo di Russia 2018, lo guarda prima di andare a dormire e appena sveglio, tutti i giorni, si è messo in testa di arrivare fin lì, certi uomini sanno intestardirsi più del granito.

E l’Islanda in Russia ci arriva, la nazione meno popolata di sempre a qualificarsi a un Mondiale. Come avete fatto, chiedono i giornalisti a Halldórsson, gli dedicano articoli, documentari e speciali, tutti vogliono sapere il segreto del portiere-regista. Con la sua voce senza inflessioni lui ripete che non è mai troppo tardi per nulla, che nella vita occorre fissare obiettivi realistici, una delle principali risorse degli islandesi risiede in un proverbio: non esiste un ascensore verso il successo, bisogna prendere le scale. E non esiste nemmeno un pulsante magico per generare tutto questo, aggiunge, lo spirito della nostra squadra viene da lontano, da quel che abbiamo passato, dalla nazione intera che crede di essere un giocatore e da questa convinzione assurda che ci è sorta negli anni, siamo l’Islanda e possiamo battere chiunque.

Il 16 giugno 2018 a Mosca si gioca la partita inaugurale del girone D del Mondiale. Un altro esordio, il grande esordio. In Russia manca Buffon ma c’è il resto del mondo, e il 5% della popolazione islandese a battere le mani sulle tribune, intervalli di silenzio sempre più brevi, poi lo scroscio finale. Gli applausi sfumano in un primo piano di Hannes Halldórsson, espressione raccolta e saltelli sul posto. C’è arrivato, alla fine, aveva ragione suo padre quando gli ripeteva di insistere. Non esisterebbe Islanda senza cocciutaggine, d’altra parte, non esisterebbe questa storia che pare lo script di uno sceneggiatore folle, o la trama del thriller che un giorno Halldórsson girerà, prima o poi la sua doppia vocazione si unificherà e del portiere-regista resterà solo il secondo.

Non ora. Ora c’è Messi pronto a battere un rigore, uno dei calciatori più forti della storia si appresta a rendere ragione alla logica, sarebbe il gol del 2-1 per l’Argentina ed è giusto e normale che avvenga, la sconfinata Argentina non dovrebbe faticare molto a superare la minuta Islanda. E invece il calcio chissà chi lo capisce, Halldórsson comprende le intenzioni del campione, ne ha studiato per bene le abitudini: si distende sulla destra, incrocia i guantoni e respinge il tiro di Messi. Il pallone fa un rimbalzo e schizza lateralmente, troppo defilato per essere ribadito in rete dagli argentini. Quello che riesce ad abbozzare Banega è giusto un passaggio al centro, un cross molle e nient’affatto pericoloso. Gunnarsson con un tuffo libera l’area di testa, l’inaudito pareggio è cosa fatta.

© 2019, Leonardo Piccione
© 2019, Iperborea S.r.l., Milano