La Svezia ha richiamato la propria ambasciatrice in Cina
Anna Lindstedt è finita nei guai dopo il suo coinvolgimento nelle controverse trattative per la scarcerazione di un libraio svedese di Hong Kong
di Daniele Conti
Il ministero degli Esteri svedese ha richiamato la propria ambasciatrice in Cina, Anna Lindstedt, e ha aperto un’indagine interna per chiarire il suo ruolo nel confuso caso che riguarda Gui Minhai, un libraio svedese di origini cinesi da tempo incarcerato in Cina per ragioni ignote.
Gui, che viveva a Hong Kong, è in carcere da gennaio dell’anno scorso, quando fu arrestato da dieci agenti di polizia in borghese mentre si trovava su un treno diretto a Pechino. Non era la prima volta che Gui veniva arrestato dalla polizia cinese: era già stato fermato e incarcerato nel 2015, senza che se ne sapesse nulla per mesi, insieme ad altri librai ed editori di Hong Kong, probabilmente per aver messo in vendita libri critici nei confronti dei politici cinesi. Era stato rilasciato a ottobre del 2017, prima di essere nuovamente arrestato pochi mesi dopo.
Una delle sue figlie, Angela Gui, sta portando avanti da tempo una campagna per chiedere il suo rilascio. Mercoledì scorso, in un post pubblicato sulla piattaforma Medium, ha raccontato che a metà gennaio era stata contattata dall’ambasciatrice Lindstedt, che l’aveva invitata a incontrare a Stoccolma alcuni uomini d’affari cinesi disposti ad aiutarla. La figlia di Gui ha scritto che gli incontri, a cui aveva partecipato anche Lindstedt, furono da subito molto strani: tra le altre cose gli uomini le chiesero di rimanere per tutto il giorno nell’albergo di Stoccolma dove si incontrarono, le offrirono molto vino e le chiesero di andare a lavorare con loro in Cina, assicurandole che le avrebbero potuto procurare un visto grazie ai loro contatti con l’ambasciata cinese a Stoccolma.
Infine le chiesero di smettere di diffondere dichiarazioni sul caso di suo padre: in cambio suo padre avrebbe potuto essere rilasciato dopo aver scontato una pena ridotta, cioè “pochi anni” di carcere. Angela Gui racconta di aver detto a uno di questi uomini che non si fidava di lui, ottenendo come risposta: «Ti devi fidare di me, o non vedrai mai più tuo padre». La figlia di Gui ha scritto che Lindstedt si era detta d’accordo col piano proposto dai cinesi, e che aveva aggiunto che la Cina avrebbe potuto punire la Svezia se avesse continuato la campagna per la liberazione di suo padre. Lindstedt spiegò anche che il ministero degli Esteri svedese non era al corrente di quell’incontro.
Nel suo post, Angela Gui scrive di avere rifiutato l'”offerta” dei cinesi: «Non me ne starò tranquilla in cambio di un visto o dell’arbitraria promessa che mio padre potrebbe essere liberato. Minacce, abusi verbali, tentativi di corrompermi o adulazioni non mi faranno cambiare idea».
Il Wall Street Journal ha scritto di avere provato a contattare Lindstedt via email, e di avere ricevuto una risposta automatica che spiegava che la sua missione a Pechino era finita, e che stava tornando in Svezia. Un addetto stampa del ministero degli Esteri svedese ha detto che è in corso un’indagine interna «dovuta a informazioni su comportamenti inappropriati relativi ad alcuni eventi della fine di gennaio», rifiutandosi però di fornire dettagli sulle accuse di cui Lindstedt sarebbe oggetto.
Lindstedt è il secondo ambasciatore di un paese occidentale in Cina a essere richiamato in meno di un mese: a fine gennaio il primo ministro canadese Justin Trudeau aveva licenziato l’ambasciatore canadese a Pechino, John McCallum, dopo un controverso commento di McCallum sul caso Huawei, che era stato definito da molti politici ed ex diplomatici canadesi un’interferenza inaccettabile nei rapporti tra Cina e Canada. La rapida successione dei due episodi sta contribuendo ad alimentare le preoccupazioni attorno all’influenza sempre maggiore che la Cina eserciterebbe sui diplomatici stranieri, scrive il Wall Street Journal.