Come far mangiare più verdure
Molto dipende da come sono descritti i piatti: meglio non dire MAI che sono vegetariani e fanno bene, dice uno studio interessante
Il Better Buying Lab (BBL) è un laboratorio di ricerca dell’istituto non profit World Resources Institute che studia nuove strategie per convincere le persone a comprare e consumare cibo più salutare e la cui produzione inquini meno il pianeta. Fondato nell’agosto del 2016, mette insieme ricercatori, economisti, esperti di marketing e grosse aziende per condurre test e analisi; e ora ha pubblicato le prime conclusioni di uno studio su come la descrizione di un piatto influenzi la decisione di ordinarlo al ristorante o acquistarlo al supermercato. Il laboratorio ha quindi messo insieme una serie di consigli su quali parole evitare e quali aspetti sottolineare per favorire il consumo di piatti a base di ortaggi, legumi, frutta, cereali, noci e semi, la cosiddetta dieta a base vegetale, ritenuta meno dannosa per l’ambiente. Prevede anche cibi a base di proteine come uova, latte e formaggi, ma non di origine animale, come carne e pesce.
Il problema dei cibi vegetali è che – per le persone che non decidono programmaticamente di preferirli agli altri, come i vegetariani o i vegani – sono percepiti come poco buoni, sazianti e soddisfacenti, e come una privazione da scegliere ogni tanto per la salute e non per il sapore. In realtà le cose possono essere molto diverse: rientrano nella dieta a base vegetale sia i cubetti di tofu con le verdure bollite, che una oleosa e ricca parmigiana di melanzane, per non parlare delle patatine fritte.
Le cose da non fare
1) Non descrivere un cibo senza carne sottolineando che è “senza carne”
Non è molto furbo farlo notare, se l’obiettivo è convincere chi solitamente mangia carne a comprare un prodotto che non ne contiene. In generale, mettere l’accento su quello che manca in un piatto dà la sensazione che ci si stia perdendo qualcosa. Come mostrano test online condotti da BBL, i piatti etichettati come “senza carne” sono scelti raramente, ma basta cambiare il nome perché vengano ordinati di più. Lo ha dimostrato anche un esperimento della catena di supermercati britannica Sainsbury’s, che in una caffetteria della cittadina di Truro ha cambiato il nome di un suo piatto da “Salsiccia senza carne con purè” a “Salsiccia vegetale speziata alla Cumberland con purè»: gli acquisti sono aumentati del 76 per cento.
2) Non definire un piatto “vegano”
Per quelli che non sono vegani, la parola “vegano” – che indica una dieta priva di alimenti di origine animale, quindi anche latte, formaggio e uova – è respingente e viene automaticamente associata a qualcosa di radicalmente diverso da quello che si è abituati a mangiare di solito. In un studio sui giornali britannici condotto nel 2011, il 74 per cento di 397 articoli che contenevano la parola “vegano” la usava per descrivere una dieta estremamente difficile o impossibile da mantenere, ed era spesso accompagnata da parole come “restrittiva”, “da fanatici”, “da hippie”. Nel 2017 BBL ha condotto uno studio simile su 15,4 milioni di post su Twitter, Instagram, blog e forum britannici e statunitensi che parlavano di piatti prevalentemente a base di ortaggi e legumi, vegani o vegetariani: la parola “vegano” era usata il doppio delle volte con un’accezione negativa rispetto alle altre. In un altro studio condotto negli Stati Uniti i partecipanti dovevano mettere in ordine di attrattiva 21 parole usate per descrivere cibo e bevande: la parola “vegano” risultò la meno attraente di tutte, e il 35 per cento delle persone disse che l’avrebbe dissuaso da comprare un prodotto. Se la parola in sé è da evitare, BBL consiglia di indicare i prodotti che lo sono con un simbolo, come la classica foglia, per far capire al volo ai vegani che sono adatti per loro.
3) Non usare neanche la parola “vegetariano”
Per chi mangia abitualmente carne, un piatto vegetariano indica spesso cibo sano ma deludente e poco gustoso. Secondo una studio della London School of Economics (LSE), se si troverà davanti un menu con una sezione apposita di piatti vegetariani, li ordinerà il 56 per cento di volte in meno – 5,9 volte su cento contro 13,4 – di quando quegli stessi piatti sono mescolati con gli altri, che si tratti di burrata o patatine fritte. Anche se la parola “vegetariano” non è respingente come “vegano”, si porta dietro pregiudizi negativi: i vegetariani sono connotati come deboli e amanti degli animali, e molti considerano gli uomini vegetariani meno virili. BBL sottolinea che le cose stanno cambiando e in alcune città e classi sociali non è più così.
4) Evitare termini che esaltano un cibo come salutare
Secondo le ricerche di BBL, in Regno Unito e Stati Uniti un piatto definito con pochi grassi, zuccheri o a basso contenuto di sale, vende meno perché percepito come poco appagante e saporito. In un esperimento condotto a una festa negli Stati Uniti, per esempio, era stato servito del lassi al mango, una bevanda popolare indiana a base di yogurt, che a metà degli ospiti venne descritto come salutare, all’altra metà no: dopo averlo assaggiato, le persone del primo gruppo che lo descrissero come buono erano meno della metà di quelle del secondo. «I cibi salutari non vendono», ha detto Erica Holland-Toll, capo chef del laboratorio sui sapori della Stanford University. O meglio: non vendono se l’unico motivo per comprarli dovrebbe essere il fatto che sono salutari. Holland-Toll ha fatto parte di uno studio pubblicato l’anno scorso che ha concluso che gli slogan che insistono su “senza grassi” e “con meno sale” non piacciono ai clienti. L’associazione non vale però per tutti i mercati: in Francia per esempio i prodotti più salutari sono considerati anche più buoni; BBL non ha fornito dati sull’Italia.
Cosa fare invece
1) Indicare la provenienza di un piatto
Per un mese uno dei 18 ristoranti di Panera Bread di Los Angeles ha rinominato la sua “Zuppa vegetariana di fagioli neri a basso contenuto di grassi” in “Zuppa cubana di fagioli neri”: così ne ha venduto il 13 per cento in più. In un esperimento condotto con BBL, la britannica Sainsbury ha rinominato la sua “Colazione senza carne” in “Colazione dal giardino” e in “Colazione dal campo”: in questo caso le vendite sono aumentate rispettivamente del 12 e del 17 per cento. Insistere sulla provenienza fa sì che al cibo si associno altre sensazioni, immagini, desideri, e che risulti più genuino o esotico: è una strategia assodata e funziona già per molti piatti come il ragù alla bolognese, la mozzarella di bufala campana e il pesto ligure.
2) Insistere sul gusto
Descrivere il sapore di un piatto non solo rende l’idea di cosa si sta per assaggiare ma fa venire l’acquolina in bocca, come ha confermato uno studio del 2018 dell’università di Stanford.
I piatti con descrizioni che evocano il sapore – come “Patate dolci con curcuma e zenzero” o “Granoturco dolce arrostito e imburrato” – sono scelti il 41 per cento in più degli stessi piatti indicati come salutari e ipocalorici, e il 25 in più di quelli con etichette neutre. In un test condotto online da BBL, un piatto chiamato “Curry di ceci e patate” e rinominato “Curry dolce e leggero con ceci e patate dolci” è stato ordinato il 108 per cento di volte in più. BBL consiglia di esaltare gli ingredienti saporiti, le spezie, i metodi di cottura, gli accostamenti: è una tecnica comune anche per i piatti a base di carne, come il maiale in agrodolce o il salmone affumicato.
3) Sottolineare l’aspetto e la consistenza di un cibo
Descrivere il sapore, l’aspetto e la consistenza che avrà un cibo in bocca, farà venire voglia di avercelo in bocca. I piatti vegetali sono più colorati di quelli a base di latte, carne e pesce, e ogni colore porta con sé l’idea di un certo sapore. Per esempio descrivere un’insalata mista come “insalata arcobaleno” comunica con immediatezza un piatto fresco, bello e vario. Anche puntare sulla sensazione che si avrà mordendo e masticando è un buon metodo: in un test online di BBL gli “Gnocchi con funghi, spinaci freschi e parmigiano” sono diventati “Gnocchi filanti con funghi, spinaci freschi e crema di parmigiano”, aumentando i consumi del 14 per cento. Bisogna insomma usare un linguaggio accattivante, meglio se associato al cibo grasso, calorico e gratificante, come “si scioglie in bocca”, “croccante”, “soffice”, “cremoso”.