La rivoluzione che cambiò l’Iran
Quarant'anni fa i religiosi presero il potere a Teheran e imposero un governo che non si era mai visto prima, con effetti su tutto il Medio Oriente: cos'è rimasto oggi di tutto questo?
di Elena Zacchetti
Il primo febbraio 1979, poco più di quarant’anni fa, il religioso sciita Ruhollah Khomeini arrivò all’aeroporto di Teheran, la capitale dell’Iran, dopo molti anni di esilio all’estero. Ad aspettarlo c’erano centinaia di migliaia di persone che nelle settimane precedenti avevano sostenuto la rivoluzione contro lo scià Mohammad Reza Pahlavi, il re che governava in maniera autoritaria in Iran dal 1941. Khomeini non era il religioso più autorevole dal punto di vista dottrinario, ma era il più carismatico: era diventato popolare grazie alle audiocassette di propaganda spedite illegalmente dalla Francia, che gli avevano garantito un’ampia schiera di ammiratori.
In breve tempo Khomeini divenne il leader della rivoluzione iraniana: marginalizzò tutte le altre forze politiche che avevano complottato contro lo scià, tra cui comunisti e nazionalisti, e impose un sistema di governo che non si era mai visto fino a quel momento, chiamato velayat-e-faqih, traducibile letteralmente come “governo del giureconsulto”, cioè un governo nel quale veniva riconosciuto il ruolo di guida del giurista islamico sulla comunità dei credenti. Khomeini trasformò l’Iran in una Repubblica Islamica, un paese molto diverso da quello che era esistito fino a quel momento, e ne cambiò radicalmente le alleanze internazionali, con enormi conseguenze su tutto il Medio Oriente.
Sono passati quarant’anni da allora: in Iran sono cambiate molte cose, ma non il sistema di potere imposto dai primi religiosi rivoluzionari, con esiti molto controversi e discutibili.
La rivoluzione iraniana non iniziò da un giorno all’altro. Nel 1963 lo scià aveva avviato la cosiddetta “rivoluzione bianca”, un programma molto ampio di riforme suggerite dall’amministrazione statunitense di John F. Kennedy (importante alleato del regime iraniano) per anticipare le spinte di cambiamento che già si intravedevano e che avrebbero potuto far guadagnare consensi all’opposizione comunista. La modernizzazione, però, fu troppo veloce e fu presto accusata di essere in realtà una “occidentalizzazione”.
Era da diversi anni che i religiosi che si opponevano allo scià usavano questo argomento per screditare il regime: l’avversione verso l’Occidente, e in particolare verso gli Stati Uniti, era diventata sempre più diffusa dal 1953, quando lo scià aveva ripreso il controllo del paese grazie a un colpo di stato contro il governo nazionalista di Mohammed Mossadegh, a cui avevano partecipato anche i servizi segreti statunitensi e britannici.
Con le riforme, le aspettative degli iraniani aumentarono senza però che, di pari passo, crescesse l’economia e si introducessero politiche per arginare la corruzione della monarchia. Nel 1976 iniziò la crisi, con un aumento della disoccupazione e dell’inflazione. Nel maggio del 1977 ci furono le prime proteste degli intellettuali, a cui si aggiunsero in un secondo momento quelle dei religiosi. La rivoluzione iniziò così: con un movimento ampio e vario che includeva studenti, nazionalisti, religiosi e comunisti, che si opponeva alle politiche autoritarie e fallimentari dello scià. Poi però diventò qualcosa di diverso.
Nel 1979, dopo la fuga dello scià e il ritorno di Khomeini a Teheran, successero due cose che spiegano molto di cos’è diventato l’Iran oggi. Si tennero due referendum sulla futura Repubblica Islamica e fu istituito il corpo delle Guardie rivoluzionarie, una specie di esercito fedele alla nuova leadership.
Il primo referendum, che si tenne a marzo, chiedeva agli iraniani se volessero mantenere il sistema esistente o diventare una Repubblica Islamica: vinse con il 98,2 per cento la seconda. Come scrisse tempo fa il giornalista Max Fisher sul New York Times, fu di fatto un voto sulla rivoluzione, non sul sistema da adottare: molti pensavano che Khomeini si sarebbe ritirato presto nella città santa di Qom, lasciando la gestione della politica post-rivoluzionaria ad altri gruppi meno fanatici ed estremisti.
Il secondo referendum si tenne a dicembre, per approvare la nuova Costituzione basata sul velayat-e-faqih, il sistema che regola ancora oggi l’assetto istituzionale dell’Iran. Per molti iraniani la proposta della nuova Costituzione era in un certo senso accettabile. Il nuovo sistema era dominato da organi formati da religiosi e con a capo la potente Guida suprema (che allora era Khomeini), ma prevedeva anche istituzioni democratiche ed elettive, come il presidente della Repubblica e il Parlamento nazionale. Creava una specie di dualismo tra democrazia e autoritarismo, che oggi è incarnato dalla rivalità tra il presidente Hassan Rouhani, moderato e favorevole a un’apertura verso l’Occidente, e la Guida suprema Ali Khamenei, potente religioso ultraconservatore a cui fanno riferimento tutte le frange più tradizionaliste della politica iraniana.
Nel 1979 nacque inoltre il corpo delle Guardie rivoluzionarie (conosciuto anche con il nome persiano pasdaran), quello che oggi controlla una enorme parte dell’economia iraniana ed è incaricato di molte operazioni militari all’estero, per esempio nella guerra siriana a fianco del presidente Bashar al Assad. Le Guardie rivoluzionarie furono istituite perché Khomeini si fidava poco dell’esercito iraniano, che fino a quel momento era stato sotto gli ordini dello scià. Il nuovo corpo militare cominciò ad acquisire influenza durante la guerra che l’Iran combatté contro l’Iraq nel corso degli anni Ottanta – uno dei conflitti più lunghi, sanguinosi e inutili della storia del Medio Oriente – ma divenne davvero potente sotto l’attuale Guida suprema, Ali Khamenei, che contribuì alla creazione di un impero economico dal valore di diversi miliardi di dollari.
Oggi l’onnipresenza dei pasdaran in tutti i settori dell’economia, soprattutto quelli considerati strategici, come il petrolio, impedisce a molte aziende europee di fare affari con l’Iran, nonostante la cancellazione delle sanzioni dell’UE decisa dopo la firma dello storico accordo sul nucleare iraniano, nel 2015. Investire in settori controllati dalle Guardie rivoluzionarie rischia infatti di far diventare le aziende europee bersaglio delle sanzioni statunitensi e internazionali che sono ancora in vigore a causa delle attività militari dei pasdaran, come i test missilistici e l’appoggio a movimenti considerati terroristici (ad esempio il libanese Hezbollah). Alcuni membri del corpo, come il generale Qassem Suleimani, capo di una unità di élite dei pasdaran, sono inoltre diventati così noti e popolari da essere quasi considerati in Iran degli eroi nazionali.
Oggi l’Iran è una cosa molto diversa da quella che si aspettavano buona parte dei sostenitori della rivoluzione del 1979, ha scritto l’Economist. «è un paese meno religioso di quanto vorrebbero i mullah, meno prospero di quanto dovrebbe essere e con meno relazioni con il mondo rispetto alla maggior parte degli altri stati».
I problemi ereditati dalla rivoluzione sono anzitutto economici. Nel 1977 il PIL pro capite in Iran era poco più alto di quello della Turchia, un altro grande paese islamico, mentre oggi gli iraniani hanno meno della metà della ricchezza dei turchi. Negli ultimi anni i problemi economici hanno spinto l’ala più moderata del regime iraniano, quella guidata dal presidente Hassan Rouhani, a negoziare un accordo con diversi paesi occidentali per allentare le sanzioni internazionali sull’Iran, in cambio della rinuncia al programma nucleare militare iraniano: l’accordo ha però perso molto del suo valore dopo la decisione degli Stati Uniti di ritirarsi, e potrebbe essere affossato definitivamente se i rapporti con l’Europa dovessero peggiorare. All’inizio del 2018, inoltre, l’economia è stata al centro di grandi e rare proteste. Da gennaio migliaia di iraniani manifestarono per settimane contro la corruzione e il costo della vita, senza però ottenere nulla di rilevante.
Il sistema imposto dalla rivoluzione di Khomeini ha provocato inoltre grandi contraddizioni all’interno della società iraniana.
Secondo l’Economist, «il popolo iraniano ha perso da tempo il suo zelo rivoluzionario. Si stima che più di 150mila iraniani istruiti lascino il paese ogni anno, uno dei più alti tassi di “fuga di cervelli” al mondo. I giovani iraniani vanno in moschea con meno frequenza rispetto ai loro genitori. […] Eppure il regime agisce come se la rivoluzione fosse avvenuta ieri». Di recente, per esempio, la magistratura iraniana ha vietato di portare a passeggio i cani in pubblico, perché l’Islam considera il cane un animale impuro, mentre Khamenei ha ribadito regole ferree su come portare lo hijab, il velo usato dalle donne per coprirsi il capo, pratica obbligatoria per legge. Karim Sadjadpour, analista del think tank statunitense Carnegie Endowment for International Peace, ha scritto: «Tutto questo cattura l’essenza del governo islamista in Iran: religiosi dogmatici settuagenari che impongono il loro modo antiquato di vedere le cose a una società giovane e diversificata. Un sistema che può essere sostenuto solo tramite la coercizione».
Un altro esempio di queste contraddizioni è il controllo sull’uso di alcuni social network. Facebook e Twitter, per esempio, sono bloccati ma di fatto moltissimi iraniani li usano attraverso i VPN, software che servono per camuffare il posto da cui un utente si collega a Internet. In realtà i VPN sono un sistema molto usato in altri paesi dove ci sono dei siti internet bloccati, come in Cina, ma l’Iran ha due particolarità. Anzitutto negli ultimi anni sono nate diverse società iraniane che sviluppano i VPN e quindi c’è conoscenza e accettazione del fenomeno da parte del governo. Inoltre i più importanti esponenti politici iraniani, tra cui Khamenei, Rouhani e il ministro degli Esteri Javad Zarif, usano Twitter senza troppi problemi, pubblicando messaggi sia in inglese che in farsi, la lingua parlata in Iran: dando quindi per scontato di avere un pubblico nel proprio paese.
L’impressione è che nell’Iran di oggi, perlomeno in quello delle grandi città, come Teheran, la rivoluzione sopravviva soprattutto nella gestione del potere, ancora monopolizzata dai religiosi più conservatori, ma non altrettanto nella società iraniana, che da tempo sta vivendo nuove aperture e contraddizioni. È difficile pensare però a un cambio radicale nella leadership, almeno per ora, perché la rivoluzione ha creato un sistema estremamente rigido, che anche nella sua componente più democratica non lascia davvero spazio ai gruppi che contestano la struttura della Repubblica Islamica e che vorrebbero un sistema diverso.