Concita De Gregorio sta pagando per tutti
L'ex direttrice dell'Unità racconta che il fallimento dell'editore, una legislazione arcaica e i tempi della giustizia l'hanno messa in una situazione impossibile che potrebbe capitare a qualsiasi giornalista
Concita De Gregorio, ex direttrice del quotidiano l’Unità, conduttrice televisiva e collaboratrice di Repubblica, racconta che oggi non ha più un soldo e che il suo conto corrente è stato bloccato. La ragione è che, quasi dieci anni dopo aver lasciato la direzione dell’Unità, deve ancora affrontare decine di richieste di risarcimento danni per articoli pubblicati dal quotidiano quando ne era la direttrice. Questi debiti non sono direttamente suoi: ma dato che l’editore è fallito e molti dei giornalisti dell’epoca sono oggi disoccupati o irrintracciabili, De Gregorio è costretta a pagare per tutti.
È una trappola creata dall’incrocio di leggi arcaiche con i tempi biblici della giustizia italiana: non riguarda solo De Gregorio ma potenzialmente tutti i giornalisti italiani, e sono decine quelli che negli ultimi anni si sono già trovati in situazioni simili. De Gregorio, che fino alle ultime settimane aveva parlato raramente della vicenda, ha raccontato al Post: «Sono otto anni che mi sono messa a disposizione dei tribunali. Non chiedo niente a nessuno: non è una battaglia per me, ma per far sì che quello che mi succede non accada ad altri, ai giovani che fanno questo mestiere». La soluzione sarebbe mettere finalmente le mani nella superata legge italiana che regola la diffamazione a mezzo stampa, che risale oramai a oltre 70 anni fa.
La storia di De Gregorio comincia nel 2008, quando l’imprenditore e presidente della Sardegna Renato Soru la chiamò per dirigere lo storico quotidiano di sinistra l’Unità, che aveva appena comprato. De Gregorio ricorda che Soru era considerato una sorta di Steve Jobs italiano, fondatore di Tiscali, una delle principali società italiane di telecomunicazioni, oltre che un politico ambizioso e promettente. All’epoca si era da poco insediato quello che sarebbe diventato l’ultimo governo Berlusconi, e il giornale si preparava a un periodo di lotta politica frontale.
De Gregorio, che era già un’importante firma di Repubblica, accettò l’offerta. Si licenziò dal giornale e divenne la prima donna a dirigere il giornale fondato da Antonio Gramsci. I tre anni successivi furono un periodo di grandi cambiamenti per il giornale, nel formato (ridotto fino a diventare un “mezzo tabloid”, poco più grande dei giornali gratuiti) e nel sito, e di grandi campagne giornalistiche sugli scandali di Berlusconi, sul suo entourage e i suoi alleati. Le tracce di questi scontri si possono vedere nell’elenco delle cause civili che De Gregorio deve ancora affrontare: ce ne sono che arrivano da Silvio Berlusconi, da Paolo Berlusconi, da Augusto Minzolini e dalla famiglia Angelucci (gli editori dei quotidiani Libero e il Tempo).
Queste grandi campagne sono frequenti nel giornalismo italiano (e non solo), ma per funzionare hanno bisogno che l’editore garantisca ai direttori e ai giornalisti che le portano avanti un’ampia copertura legale. È relativamente facile infatti intimidire un giornalista lasciato solo: basta una causa civile per danni dovuti a una diffamazione a mezzo stampa in cui il “danneggiato” richiede un risarcimento spropositato. Anche se la richiesta di danni non ha fondamento (cioè, come si dice in gergo, è una “querela temeraria”), il giornalista dovrà comunque pagare un avvocato per affrontare il processo e rischia di vedersi sequestrati beni e stipendio in caso le cose vadano male, per esempio per una condanna non definitiva in primo grado.
Per questa ragione, gli editori offrono quasi sempre ampie protezioni ai loro giornalisti più esposti, mettendo da parte fondi e risorse per pagare le loro spese legali, difenderli con abili avvocati esperti di diritto dell’informazione e risarcire coloro che dovessero vincere le cause di diffamazione. A volte questa protezione viene messa per iscritto nei contratti di lavoro sotto forma di una “clausola di manleva”, che assolve giornalisti e direttori dalle eventuali conseguenze che potrebbe avere il loro lavoro.
De Gregorio racconta che il suo contratto non prevedeva una clausola di manleva, ma che questo è stato tutto sommato un problema secondario: nel 2017 un tribunale le ha riconosciuto la manleva da parte dell’editore anche senza che questa fosse esplicitamente espressa nel contratto; una decisione, racconta oggi De Gregorio, che potrebbe essere utile in futuro ad altri giornalisti che si trovassero in contrasto con il loro editore. Il problema è che giunti a quella decisione non c’era più un editore che potesse affrontare le spese di sua competenza.
De Gregorio lasciò l’Unità nel 2011 e tornò a Repubblica, dove da allora ha lavorato da collaboratrice autonoma, ragione per cui lo stipendio le viene pignorato in maniera pressoché completa e non solo per un massimo pari a un quinto del totale, come accade ai lavoratori dipendenti. Intanto la crisi dell’Unità, che aveva già iniziato a manifestarsi negli anni della direzione di De Gregorio, si fece sempre più grave e, di fronte alla decisione di Soru di non investire più nel giornale, nell’estate del 2014 il giornale entrò in concordato preventivo e cessò le pubblicazioni.
Il risultato fu che quella che riprese le pubblicazioni nel 2015 sotto la direzione di Erasmo De Angelis era una nuova Unità senza legami con la precedente. La vecchia società editrice era sparita e la nuova non poteva essere chiamata in causa per questioni accadute prima della sua nascita. Ma per colpa dei tempi lunghissimi della giustizia italiana, nel 2015 e con la “sua” Unità oramai fallita e fuori dai giochi, De Gregorio continuava a essere coinvolta in cause e processi che si riferivano a fatti accaduti quattro, cinque, sei, persino sette anni prima, all’epoca della sua direzione.
Quando si verificano queste circostanze la legge italiana è molto chiara, anche se oramai completamente superata: è la famigerata legge sulla stampa, la numero 47 del 1948, da decenni oggetto di ipotesi e promesse di riforma finora rimaste quasi tutte incompiute. Stabilisce che in caso di richiesta danni per diffamazione il giornalista, il direttore e l’editore sono responsabili “in solido” per il risarcimento del danno causato, cioè tutti e tre insieme. Significa che ognuno dei tre deve pagare una specifica parte del danno (un terzo a testa, se non sono specificate percentuali diverse), ma il danneggiato si può rivalere per l’intera cifra su ognuno di loro (per esempio perché solo uno dei tre ha risorse sufficienti a ripagare il danno). Chi paga può a sua volta rivalersi sugli altri tre per la parte che compete loro.
Per esempio, se un tribunale stabilisce che un danneggiato ha diritto a 90 mila euro di rimborsi per un articolo diffamatorio nei suoi confronti, giornalista, editore e direttore sono ciascuno tenuti a pagare 30 mila euro. Ma il danneggiato può chiedere tutti i 90 mila euro al solo direttore del giornale (per esempio perché l’editore nel frattempo è fallito mentre l’autore dell’articolo non è più rintracciabile oppure è nullatenente). Sta poi al direttore del giornale, se ne è in grado, rivalersi sugli altri due affinché paghino “la loro parte”. È questo quello che dal 2015 sta accadendo a De Gregorio. L’editore non esiste più (per colpa del concordato del 2014 e poi del fallimento della nuova società nel 2017), i giornalisti sono spesso irrintracciabili o nullatenenti, e quindi l’unica su cui i querelanti possono rivalersi è rimasta lei.
L’ultimo di questi casi è particolarmente doloroso per De Gregorio. Riguarda un articolo pubblicato nel 2009 su quello che allora era stato appena nominato direttore della municipalizzata dei rifiuti di Roma, Stefano Andrini, ex estremista di destra condannato per un’aggressione in cui, nel 1989, tre ragazzi erano stati picchiati e ridotti in fin di vita. De Gregorio racconta che il giornale pubblicò integralmente un lancio dell’ANSA in cui era stato sbagliato il reato per cui Andrini era stato condannato per quell’aggressione. Andrini chiese un risarcimento al giornale, respinto in primo grado ma accolto nel corso dell’appello che si è concluso pochi giorni fa, a dieci anni dalla pubblicazione dell’articolo, a otto anni da quando De Gregorio ha cessato di esserne la direttrice, a cinque anni da quando il concordato preventivo ha messo fine alla storia della testata.
«Stefano Andrini, neonazista dichiarato, ha fatto sequestrare con la sua causa il mio conto corrente dove non ho più nulla se non i soldi per pagare le bollette di luce e gas», dice oggi De Gregorio con amarezza. «Berlusconi, Mori, Minzolini, Angelucci, e i nazisti tipo Andrini», continua ricordando gli autori delle cause che la riguardano: «Questi sono coloro che pretendono giustizia da me. È una guerra politica, non vogliono che tu scriva di loro e quindi ti fanno causa».
Per De Gregorio la legge deve essere cambiata affinché episodi simili non possano più ripetersi. In Europa, per esempio, è molto diffusa l’idea, del tutto assente in Italia, che le richieste danni per diffamazione debbano essere in qualche maniera parametrate al reddito del danneggiante, così da evitare che un piccolo blogger possa essere citato in giudizio per milioni di euro. «La tutela della libertà di informazione passa per la tutela del patrimonio di chi fa informazione», spiega De Gregorio, ricordando che quelli che sono a rischio non sono tanto i giornalisti che scrivono per i grandi quotidiani, che una protezione in qualche maniera riescono sempre a ottenerla, ma piuttosto i giornalisti dei piccoli giornali o di giornali in crisi e che rischiano di chiudere, i freelance, i blogger. Tutte figure che potrebbero essere condizionate dalla minaccia di “querele temerarie” come quelle che affronta De Gregorio.
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