La Colombia sta facendo un gran lavoro con i migranti dal Venezuela
Ragionando sul lungo termine: ma i numeri enormi – un milione e mezzo di persone fin qui – stanno complicando ogni buona intenzione e pratica
Negli ultimi due anni più di due milioni di persone hanno lasciato il Venezuela per scappare dalla gravissima crisi politica ed economica che ha lasciato il paese senza medicine e beni di prima necessità. È una crisi migratoria e umanitaria enorme, dalle dimensioni paragonabili a quella dei profughi siriani. La prima destinazione dei venezuelani che cercano rifugio all’estero è la Colombia, che ha accolto finora circa un milione e mezzo di persone – pari al 3 per cento della popolazione totale – facendo uno sforzo di inclusione apprezzato dalle principali agenzie di soccorso internazionali e raccontato da diversi giornali. Ma la situazione si sta complicando parecchio.
La situazione è stata raccontata in un recente articolo dell’Atlantic. «Non ho mai visto un governo impegnarsi così tanto per registrare le persone e lasciare i confini aperti», ha raccontato Trisha Bury, vice direttrice per l’International Rescue Committee, associazione statunitense che opera in 40 paesi del mondo per rispondere alle crisi umanitarie: «Sfortunatamente, le dimensioni di questa crisi e la velocità con cui cambia sono più grandi e rapide di quelle che la Colombia è in grado di gestire».
Solo quindici anni fa i colombiani guardavano al Venezuela come a un modello, sia dal punto di vista economico che politico. Milioni di colombiani infatti, provenienti soprattutto dalle campagne e stanchi della guerra civile tra governo e formazioni paramilitari, si rifugiavano proprio in Venezuela: nessuno immaginava, a quel tempo, che la relazione tra i due paesi si sarebbe rovesciata. Alla morte di Hugo Chávez, avvenuta il 5 marzo 2013, il Venezuela era già entrato in crisi: la mancanza di sicurezza, la scarsità di molti beni di prima necessità, l’inflazione che superava il 50 per cento nonostante il paese fosse uno dei più grandi esportatori di petrolio al mondo, i continui blackout e le politiche illiberali del governo avevano contribuito ad aggravare le condizioni della popolazione. Nicolás Maduro, successore di Chávez, aveva reagito fin dall’inizio incolpando della crisi ipotetiche cospirazioni internazionali in atto contro il suo paese, incolpando anche la Colombia. Tra le altre cose aveva espulso migliaia di colombiani e chiuso la frontiera in almeno due occasioni dal giorno della sua elezione.
Quando il confine fu riaperto, nel luglio del 2016, la direzione delle migrazioni si era invertita. Inizialmente a spostarsi erano persone che arrivavano in Colombia dal Venezuela per fare la spesa o per cercare medicinali introvabili nel loro paese. Lentamente però le cose sono cambiate: il flusso è aumentato e lo spostamento è diventato permanente. Nei primi tre mesi dalla riapertura delle frontiere almeno 65 mila venezuelani si sono trasferiti in Colombia. Un anno dopo quella cifra era salita a 470 mila e nel novembre 2018 aveva superato il milione. Nell’ultimo anno hanno attraversato ogni mese il confine tra Venezuela e Colombia circa 150 mila persone. Nel 2021, ha detto il ministro degli Esteri colombiano, il suo paese potrebbe ospitare circa 4 milioni di venezuelani.
Il confine tra Venezuela e Colombia è molto simile a quello che divide gli Stati Uniti dal Messico. La frontiera è lunga 2.200 chilometri ed è facilmente attraversabile, anche illegalmente, in più punti. Fin dall’inizio l’autorità colombiana per le migrazioni ha lavorato per registrare i nuovi arrivati, ma ha faticato a tenere il passo con l’aumentare dei flussi. Ha rilasciato centinaia di migliaia di documenti di mobilità frontaliera, consentendo ai venezuelani di entrare e uscire liberamente da una precisa zona di confine e negli ultimi mesi ha cercato di trasformare la questione dei migranti da emergenza umanitaria a occasione di sviluppo.
Questo grande afflusso potrebbe infatti rappresentare un’opportunità di crescita economica per la Colombia. Se in regola, i nuovi arrivati potrebbero avviare piccole imprese, generando lavoro e reddito: «C’è una vasta letteratura in economia che mostra come i migranti diventino imprenditori a un tasso molto più elevato rispetto ai residenti», ha spiegato all’Atlantic Dany Bahar, un economista venezuelano esperto di migrazioni: «L’atto di emigrare è un atto di assunzione di rischio, e questo è il profilo di un imprenditore». La Colombia ha poi avviato un programma per permettere ai bambini venezuelani di andare a scuola cercando di ragionare a lungo termine.
Nonostante l’avvio di un percorso positivo di inclusione, i numeri stanno complicando le cose: molte scuole colombiane sulla zona di confine hanno ospitato fino a 300 studenti nuovi senza però assumere nuovi insegnanti. E poiché i migranti di solito si insediano nelle aree più povere delle città, le scuole con minori risorse stanno sopportando il carico più pesante. I venezuelani hanno poi accesso anche alle cure d’emergenza negli ospedali colombiani, ma le sale di attesa e i vari reparti delle cliniche di tutto il paese sono diventati sovraffollati. Nemmeno il numero di case disponibili è in grado di far fronte alla quantità di nuovi arrivati.
Secondo Felipe Muñoz, funzionario colombiano che si occupa della zona di confine, il suo governo ha dato priorità e sostegno alle aree del paese che hanno accolto il maggior numero di migranti. Ma gestire questi enormi numeri rimane una sfida: i migranti qualificati potrebbero non trovare lavoro nel loro settore e finire dunque nelle piantagioni di caffè mettendo in crisi la manodopera locale o causando un abbassamento degli stipendi; i bambini potrebbero finire per le strade e nei giri del narcotraffico e i problemi di salute non trattati potrebbero diffondersi.