Che personaggio, Roger Stone
L'uomo accusato di avere fatto da collegamento fra Trump e Wikileaks durante la campagna per le elezioni statunitensi del 2016 ha avuto una vita da rockstar, più o meno
Quando è uscito dal tribunale federale che lo aveva accusato di aver fatto da tramite fra la campagna elettorale di Donald Trump e un gruppo di hacker russi, Roger Stone ha allargato le braccia e fatto il segno della vittoria con entrambe le mani. È un gesto reso celebre dall’ex presidente americano Richard Nixon, e che Stone – consulente politico statunitense di lunghissimo corso e importante consigliere di Trump – replica ogni volta che si trova davanti una telecamera. Questo inusuale gesto di vittoria non è l’unico tratto che rende Stone molto riconoscibile nel mondo della politica americana. Fra le altre cose ci sono i suoi completi sgargianti, un fisico da palestrato e una lista lunghissima di dichiarazioni false, razziste, misogine o semplicemente sopra le righe.
Ma la cosa che più lo ha reso celebre a Washington e dintorni, e che negli anni gli ha fatto guadagnare innumerevoli profili sui giornali americani e la fiducia di Trump, sono i dirty tricks, cioè gli espedienti disonesti che è solito escogitare per favorire i politici per cui lavora. Durante la campagna elettorale del 1960, quando aveva otto anni, Stone apprezzava molto John Fitzgerald Kennedy e raccontò a tutti i bambini della sua scuola che Richard Nixon – che in futuro avrebbe adorato – voleva rendere obbligatorio il sabato a scuola.
«Fu la prima volta che giocai sporco in politica», raccontò nel 2007 al Washington Post.
Stone è nato nel 1952 a Norwalk, in Connecticut. Sua madre era una giornalista e suo padre un piccolo imprenditore. Studiò alla George Washington University e cominciò ad interessarsi di politica fin da giovanissimo. Ebbe persino una piccola parte nel Watergate, l’enorme scandalo politico che portò alle dimissioni dell’allora presidente Repubblicano Richard Nixon.
Mentre lavorava per il comitato elettorale di Nixon, Stone si finse un uomo di nome Jason Rainier e fece una donazione per l’avversario di Nixon alle primarie dei Repubblicani per conto della Giovane Alleanza Socialista. Successivamente rese pubblica la ricevuta della donazione, accusando l’avversario di Nixon di essere appoggiato dai socialisti. Qualche tempo dopo, ha raccontato Jeffrey Toobin in un lungo pezzo per il New Yorker, Stone assunse un consulente politico per infiltrarsi nella campagna di George McGovern, il candidato Democratico alla presidenza. Entrambe le cose vennero fuori durante le udienze parlamentari del Watergate, e costarono a Stone il posto da collaboratore dell’influente senatore Repubblicano Bob Dole.
Ma la carriera di Stone era appena iniziata. Nel 1976 Stone fece parte del comitato elettorale per la prima candidatura di Ronald Reagan a presidente. Nonostante Reagan abbia poi deciso di non includerlo nel suo staff presidenziale, quell’esperienza permise a Stone di continuare a lavorare in politica, ad esempio nelle due campagne elettorali del governatore Repubblicano del New Jersey, Thomas Kean. All’epoca Stone affiancava alla sua attività politica anche quella da lobbista, lavorando spesso insieme a Paul Manafort (futuro capo del comitato elettorale di Trump e personaggio chiave nell’inchiesta sui legami fra i collaboratori di Trump e la Russia).
Nel 1996 Stone tornò a lavorare con Bob Dole, stavolta con un ruolo di maggiore responsabilità: era uno dei principali collaboratori del comitato elettorale per la sua elezione a presidente degli Stati Uniti. Stone però fu cacciato in malo modo dopo che il noto tabloid National Enquirer scoprì che aveva pubblicato un annuncio per coppie scambiste. All’epoca Stone negò tutto, ma dieci anni dopo rivelò che aveva reagito in quel modo perché i suoi nonni «erano ancora vivi». «Non voglio essere ipocrita: sono un libertario e un libertino», aggiunse.
Fu proprio in quegli anni che Stone si avvicinò a Donald Trump: dopo aver lavorato per lui come lobbista, lo convinse a candidarsi alla presidenza con il Partito della Riforma, che otto anni prima era stato fondato come partito personale dell’imprenditore texano Ross Perot (e che alle presidenziali del 1992 ottenne un notevole 18,9 per cento). La campagna di Trump fu un mezzo disastro, e in quel periodo Stone continuò ad alternare guai e successi. Nel 2007, mentre lavorava come consulente per un senatore statale di New York, fu scoperto a minacciare il padre di un avversario politico del suo capo, e costretto alle dimissioni.
In mezzo a lavori più o meno legittimi, Stone continuò a coltivare il suo rapporto con Trump. Nel 2015 fu fra le prime persone a lavorare al suo comitato elettorale e iniziò a comparire in tv come suo portavoce («come diceva Gore Vidal, non farti mai scappare l’opportunità di andare in tv e di fare sesso», ha detto una volta).
Alla fine dell’anno, Stone pubblicò anche un libro pieno di notizie probabilmente false su Hillary Clinton. A un certo punto però lui e Trump litigarono – non è chiaro per quale motivo – e Stone fu allontanato dal comitato. Al contempo venne bandito da alcune tv via cavo per aver insultato un’analista di CNN e aver usato un aggettivo razzista per un altro commentatore della stessa rete. Da allora la Casa Bianca e Trump hanno cercato di distanziarsi da Stone – forse temendo che stesse diventando incontrollabile – senza però molto successo.
Nell’aprile del 2017, pochi mesi dopo l’insediamento di Trump, Netflix diffuse un documentario sugli sforzi di Stone per far eleggere Trump, attirando di nuovo molte attenzioni sul suo bizzarro personaggio.
Fu proprio in quel periodo che emerse il suo ruolo nella complessa indagine portata avanti dal procuratore speciale Robert Mueller, che si sta occupando delle interferenze russe nelle ultime elezioni presidenziali statunitensi. Secondo l’atto di accusa nei suoi confronti diffuso ieri dal gran giurì del District of Columbia, gli investigatori lo accusano di aver fatto da tramite tra il comitato elettorale di Donald Trump, gli hacker russi che attaccarono il Partito Democratico durante la campagna elettorale del 2016, e Wikileaks, che aveva diffuso i documenti rubati. Nell’atto sono citati vari casi di comunicazione tra Stone e altri soggetti coinvolti nell’indagine, fra cui alcuni molto espliciti.
In un passaggio relativo ai rapporti tra Stone, il comitato elettorale di Trump e Wikileaks, si legge: «All’inizio dell’agosto 2016, Stone disse sia pubblicamente che privatamente di avere comunicato con l’Organizzazione 1 [Wikileaks]». E poi ancora: «Il 7 ottobre 2016, l’Organizzazione 1 diffuse le prime email sottratte al presidente della campagna di Clinton. Poco dopo la diffusione, un membro di alto rango del comitato elettorale di Trump mandò un messaggio a Stone che diceva: “Ben fatto”». Secondo il New York Times, Stone dava l’impressione non solo di sapere in anticipo le mosse che avrebbe fatto Wikileaks, ma anche di volersi attribuire il “merito” del tempismo della diffusione delle email che stava danneggiando la campagna elettorale di Clinton.
Stone sapeva da tempo di essere uno degli obiettivi di Mueller. Parlando con Vanity Fair, un suo amico ha raccontato che per mesi è andato a letto temendo di essere svegliato dagli agenti federali. Questa settimana è successo davvero: l’arresto è stato filmato e trasmesso da CNN, ed è difficile che a Stone sia dispiaciuto.