Le posizioni dei partiti britannici su Brexit
Quante correnti ci sono dentro il Partito conservatore? Perché non si capisce cosa vogliano fare i laburisti? Guida a chi pensa cosa nel casino della politica britannica
Lunedì la prima ministra britannica Theresa May dovrà presentarsi di fronte al Parlamento per presentare un “piano B”, dopo la bocciatura dell’accordo su Brexit raggiunto dal suo governo e dall’Unione Europea. Non si sa ancora cosa farà May: potrebbe tentare un secondo voto sullo stesso accordo, o cercare di avviare nuovi negoziati con l’Europa, che però non vuole trattare; oppure potrebbe essere il Parlamento a prendere l’iniziativa grazie al controverso speaker John Bercow, emendando l’eventuale proposta di May fino a farla diventare una specie di “piano C”. Ci sono alcuni scenari più probabili e altri meno, ma la complessità del processo su Brexit e la frammentazione del Parlamento britannico rendono difficile qualsiasi previsione.
Ci sono due modi per tentare di capirci qualcosa di più, in vista della proposta di May di lunedì e dei successivi sviluppi. Il primo è leggersi questo glossario che spiega quattro parole fondamentali usate quando si parla di Brexit, tra cui backstop e no deal: senza queste è praticamente impossibile capirci qualcosa. Il secondo è farsi un’idea delle diverse posizioni su Brexit emerse nel Parlamento britannico in questi ultimi mesi: sono molte, ognuna con le proprie sfumature, e soprattutto sono fluide. Non corrispondono perfettamente ai partiti rappresentati nella Camera bassa: ci sono conservatori che vogliono rimanere nell’Unione Europea, laburisti che sono d’accordo sull’uscire, e sostenitori di Brexit che hanno però proposte così diverse da essere inconciliabili.
Abbiamo messo insieme una breve guida, che anche se non è del tutto esaustiva aiuta a farsi un’idea del casino politico che si è creato attorno a Brexit e a capire cosa potrebbe succedere nelle prossime settimane.
– Partito conservatore
Sostenitori di una “hard Brexit”, cioè l’abbandono da parte del Regno Unito di tutte le istituzioni e di tutti i trattati dell’Unione Europea. I politici conservatori vicini a questo gruppo hanno votato contro l’accordo su Brexit raggiunto tra Theresa May e l’Unione Europea soprattutto perché contrari al backstop, che prevede che in caso di mancato accordo venga stabilita un’unione doganale tra Regno Unito e Unione Europea rescindibile solo con il consenso di entrambe le parti. I sostenitori della “hard Brexit” dicono che questo scenario rischierebbe di agganciare in maniera potenzialmente permanente il Regno Unito all’area doganale europea, e di limitare molto la capacità dei futuri governi britannici di negoziare accordi commerciali con paesi terzi non UE. Insomma, credono che una Brexit di quel tipo non sarebbe una vera Brexit.
Molti dei parlamentari che si identificano in queste idee fanno parte dell’“European Research Group”, organizzazione parlamentare del partito conservatore che da tempo cerca di prendere il controllo dei negoziati su Brexit e spinge per rifiutare ogni accordo con l’Europa. I membri dell’“European Research Group” sono i più conservatori ed euroscettici del Parlamento britannico: sono gli unici a considerare lo scenario di “no deal” non così grave, e comunque preferibile rispetto a molti altri accordi possibili con l’Unione Europea, e sono quelli che hanno proposto la sfiducia a May nella votazione interna al partito dello scorso dicembre.
Sostenitori di una “soft Brexit”, cioè quell’opzione per cui il Regno Unito uscirà dalle istituzioni europee ma rimarrà in qualche misura all’interno del “mercato unico”, la stessa situazione in cui si trovano Norvegia e Svizzera. La “soft Brexit” o “Norway plus“, dice chi la sostiene, sarebbe la forma di Brexit meno dannosa tra quelle possibili: permetterebbe al Regno Unito di rimanere di fatto nel “mercato unico” senza essere costretto ad adottare alcune particolari politiche comuni, come quella sulla pesca, osteggiata da molti conservatori scozzesi, e di sottrarsi alla giurisdizione della Corte di giustizia dell’UE.
L’UE ha offerto la “soluzione norvegese” al governo britannico, che però ha rifiutato: se il paese restasse nel mercato unico «sarebbe una presa in giro del referendum», ha detto May, e uscire dall’UE restando nel mercato unico implicherebbe accettare passivamente le decisioni prese a Bruxelles senza poter dire la propria. Questa soluzione, almeno per come sarebbe disposta a concederla l’UE, prevederebbe inoltre l’impegno del Regno Unito a mantenere le cosiddette “quattro libertà” – libertà di movimento, servizi, capitali e persone – quindi in pratica tradire una delle principali promesse elettorali della campagna del Leave (uscire dal mercato unico e bloccare la libera circolazione delle persone).
Sostenitori dell’accordo tra May e UE. All’interno di questo schieramento ci sono conservatori con idee molto diverse: ci sono quelli che si erano espressi a favore del “remain”, quindi per rimanere all’interno dell’Unione Europea, come Theresa May; e poi ci sono quelli a favore del “leave” ma tramite una Brexit negoziata, e che ritengono che l’accordo trovato dal governo con l’UE sia il migliore e unico possibile.
Stando al risultato del voto del 15 gennaio sull’accordo su Brexit, questo gruppo include 196 parlamentari conservatori su 318 (quindi tra i conservatori ci sono 118 parlamentari “ribelli”). L’accordo su Brexit è stato votato anche da tre laburisti e tre indipendenti.
– Partito laburista
I favorevoli a rimanere nell’UE appartengono soprattutto all’ala più moderata del partito, quella più critica verso il leader Jeremy Corbyn. Chi appartiene a questo gruppo è favorevole all’opzione “people’s vote”, cioè a tenere un secondo referendum su Brexit che possa eventualmente – eventualmente – ribaltare il risultato del primo. Nonostante l’ultimo congresso annuale del Partito laburista abbia mostrato come la maggioranza degli iscritti preferisca rimanere nell’Unione Europea, finora Corbyn è stato confermato nel ruolo di leader, e la posizione dei laburisti su Brexit è rimasta confusa e non unitaria.
Gli euroscettici, appartenenti all’ala più a sinistra del partito, sono i fedeli di Jeremy Corbyn e favorevoli a uscire dall’UE. Il loro obiettivo però è prima di tutto far cadere il governo May: ci hanno provato presentando in Parlamento una mozione di sfiducia dopo la bocciatura dell’accordo su Brexit, senza successo. Chi appartiene a questo gruppo vorrebbe continuare a essere parte dell’unione doganale e avere stretti legami con il “mercato unico” senza farne parte, e avere allo stesso tempo la libertà di decidere le proprie politiche migratorie e industriali: una proposta difficilmente ricevibile dall’UE.
Se l’opzione di far cadere il governo e di andare a nuove elezioni non dovesse funzionare – e il governo May ha ancora la fiducia del Parlamento – l’intenzione dei laburisti euroscettici sembra essere evitare un nuovo referendum che rischierebbe di spaccarli e appoggiare una “soft Brexit”, o “Norway plus”, soluzione sostenuta anche da un pezzo di Partito conservatore.
– Partito unionista democratico (o DUP)
È un partito protestante di destra dell’Irlanda del Nord. Il DUP sostiene il governo May (ne garantisce la maggioranza in Parlamento) ed è favorevole a una “soft Brexit” che mantenga flessibile e poroso il confine tra Irlanda del Nord e Repubblica d’Irlanda: è una necessità economica – i due lati di quella frontiera sono profondamente integrati con un gran passaggio di merci e persone – ma anche politica, visto che la creazione di un confine aperto tra i due stati fu uno degli architravi degli accordi di pace che negli anni Novanta misero fine al conflitto nordirlandese.
Il DUP ha votato contro l’accordo su Brexit tra May e l’UE a causa del backstop (spiegato qui), cioè quel meccanismo che fornisce una soluzione di emergenza in caso di mancato accordo commerciale tra britannici e UE.
In mancanza di un accordo, prevede il backstop, non ci saranno controlli doganali per quanto riguarda le merci tra Irlanda del Nord e Repubblica di Irlanda (che fa parte dell’UE), ma ce ne saranno tra Irlanda del Nord e il resto del Regno Unito. L’idea che l’Irlanda del Nord riceva un trattamento diverso dal resto del paese è inaccettabile per il DUP, partito unionista, che teme che differenziare il trattamento ricevuto dai nordirlandesi rispetto a quello riservato ai britannici sia il primo passo per separare la regione dal Regno Unito e integrarla nella Repubblica d’Irlanda.
– Partito nazionale scozzese (SNP)
È un partito scozzese indipendentista, di centrosinistra ed europeista, con 35 seggi alla Camera bassa del Parlamento britannico. L’SNP è contrario a Brexit, che considera un processo che porterà la Scozia fuori dall’Unione Europea (il 62 per cento degli scozzesi che votarono al referendum su Brexit si espressero per il “remain”). Ha votato contro l’accordo tra May e UE, criticando in modo particolare il backstop, visto come un meccanismo che riserverà un trattamento speciale e privilegiato all’Irlanda del Nord, e per questo ha minacciato di tenere un nuovo referendum sull’indipendenza.
Nel 2017 l’SNP fece campagna affinché la Scozia potesse restare nel mercato unico dopo Brexit. Oggi chiede che venga revocato l’articolo 50 del Trattato di Lisbona, quello che ha dato il via al processo che porterà a Brexit, o che venga chiesta all’UE una proroga sulla data di Brexit, fissata al 29 marzo. Sarebbe inoltre favorevole a tenere un secondo referendum sull’uscita del Regno Unito dall’UE.
– LibDem
Insieme al SNP, i LibDem sono il partito più contrario a Brexit nel Parlamento britannico. La loro posizione ufficiale è fin dal 2017 la richiesta di un secondo referendum che consenta ai cittadini britannici di scegliere tra l’eventuale accordo raggiunto tra Regno Unito e Unione Europea (attualmente quello ottenuto da May) e l’opzione di rimanere all’interno dell’Unione.
Tra queste due alternative, i LibDem sarebbero più favorevoli alla seconda: la loro posizione ufficiale è riassunta dallo slogan “Exit from Brexit”, cioè “uscire da Brexit”. Per quanto riguarda i negoziati sull’uscita, invece, i LibDem sono favorevoli alla Brexit più morbida possibile e chiedono che il Regno Unito rimanga all’interno del “mercato unico”. Alle elezioni del 2017 i LibDem erano l’unico partito apertamente favorevole a un secondo referendum su Brexit e ottennero il 7,9 per cento dei voti.