Quarant’anni fa l’ultimo scià fuggiva dall’Iran
Di lì a pochi giorni sarebbe tornato l’ayatollah Ruhollah Khomeini e l'Iran sarebbe diventata una Repubblica Islamica
Sono passati quarant’anni da quando l’ultimo scià di Persia, Mohammad Reza Pahlavi, fuggì dall’Iran in seguito alla rivoluzione che portò all’istituzione della Repubblica Islamica dell’Iran. Prima del 1979, infatti, l’Iran era una monarchia governata dalla dinastia dei Pahlavi, che aveva preso il potere nel 1925 e aveva reso l’Iran il più grande alleato degli Stati Uniti in Medio Oriente.
Mohammad Reza Pahlavi fu re dell’Iran – o scià di Persia – dal 1941 al 1979. Ereditò la carica dal padre, Reza I, costretto ad abdicare dai britannici e dai sovietici nel 1941 durante la Seconda guerra mondiale. Alla fine della guerra il Regno Unito, che era stato la potenza dominante in Medio Oriente fino a quel momento, decise di disimpegnarsi e diminuire le risorse per la politica estera, lasciando di fatto campo libero agli Stati Uniti. Durante la Guerra fredda gli Stati Uniti avevano bisogno di un alleato nell’area che svolgesse la funzione di “poliziotto” nel Medio Oriente: scelsero l’Iran dello scià, considerato sufficientemente affidabile, che accettò il ruolo, anche se inizialmente con qualche reticenza.
L’alleanza con gli Stati Uniti divenne totale nel 1953, quando lo scià riprese il controllo del paese con un colpo di stato contro il governo eletto del nazionalista Mohammed Mossadegh, a cui parteciparono anche i servizi segreti statunitensi e britannici (la storia del colpo di stato è spiegata qui). Intanto l’Iran si affermò come produttore ed esportatore di petrolio: i soldi guadagnati dalla vendita del greggio gli permisero di comprare molte armi, principalmente dagli Stati Uniti, e trasformare l’esercito iraniano nell’esercito più forte di tutto il Medio Oriente.
Nel corso del loro regno i due re Pahlavi avevano tentato di limitare il ruolo dei religiosi e della religione nel paese, anche in maniera autoritaria. Nel gennaio del 1936, per esempio, Reza Shah, il padre di Reza Pahlavi, impose il divieto per le donne di girare con il velo nei luoghi pubblici, una pratica che aveva radici tradizionali molto profonde e che era cara a diverse comunità iraniane: il decreto incontrò una forte opposizione tra i religiosi sciiti e diverse donne per molti mesi si rifiutarono di uscire di casa per timore di mostrarsi senza velo. Anche il figlio attuò una serie di riforme che dovevano contribuire a modernizzare il paese, ma attirarono il malcontento degli iraniani contro lo scià e il suo regime autoritario.
Dal 1963 al 1979 in Iran ci fu la cosiddetta “rivoluzione bianca”: un programma molto ampio di riforme attuate dallo scià e suggerite dall’amministrazione statunitense di John F. Kennedy, per “anticipare” in qualche modo le spinte di cambiamento che avrebbero potuto far guadagnare consensi all’opposizione comunista. L’aspettativa di vita degli iraniani aumentò improvvisamente, senza però che di pari passo crescessero l’economia del paese e la lotta contro la corruzione del regime e della monarchia. Nel 1976 iniziò una grave crisi economica – da qualche anno la situazione delicata tra Israele, Egitto e Siria aveva rallentato la produzione del petrolio – con alti livelli di disoccupazione e inflazione: dal maggio del 1977 iniziarono le proteste degli intellettuali a cui si aggiunsero poi quelle dei religiosi, anche moderati.
Tra quelli che protestavano una persona si fece notare più delle altre: l’ayatollah Ruhollah Khomeini (“ayatollah” significa letteralmente “segno di Dio”, è un titolo di grado elevato che viene concesso agli esponenti più importanti del clero sciita). Khomeini si trovava in esilio a Parigi, dopo essere stato per diversi anni in Iraq: nonostante non fosse uno dei religiosi iraniani più autorevoli dal punto di vista dottrinario, fu l’esponente del clero sciita che combatté la battaglia politica più dura e decisa contro lo scià, di cui chiedeva la deposizione.
Verso la fine del 1978 lo scià tentò di avviare un dialogo con le forze di opposizione del paese per evitare che la situazione precipitasse, ma gli fu imposto l’esilio. Il 16 gennaio 1979 Mohammad Reza Pahlavi fuggì dal paese assieme alla moglie Farah Diba e in ottobre gli fu concesso l’ingresso negli Stati Uniti per essere curato da un grave linfoma. In seguito alla “crisi degli ostaggi“, quando 52 dipendenti dell’ambasciata statunitense furono tenuti in ostaggio dai rivoluzionari per 444 giorni, lo scià lasciò gli Stati Uniti per rifugiarsi in Egitto, dove morì il 27 luglio 1980.
Nel frattempo l’Iran era diventato una Repubblica Islamica e l’ayatollah Ruhollah Khomeini, tornato nel paese meno di un mese dopo la fuga dello scià, era diventato la guida suprema del paese.