Il testimone più atteso al processo contro El Chapo
L'uomo che coordinava logistica e trasporti per il cartello di Sinaloa, figlio dell'attuale capo dell'organizzazione, ha parlato in aula per più di cinque ore
La settimana scorsa a New York, durante il processo al messicano Joaquín Guzmán Loera – uno dei più importanti narcotrafficanti di sempre, più noto come “El Chapo” – ha testimoniato l’ex direttore della logistica e dei trasporti del cartello di Sinaloa, organizzazione criminale che gestisce tuttora un vasto traffico internazionale di droga. I giurati, ha scritto il Wall Street Journal, hanno avuto così la «rara opportunità» di ascoltare i dettagli delle discussioni (presunte) che si svolgevano all’interno di una cerchia molto ristretta di persone.
La testimonianza di Vicente Zambada Niebla, arrestato in Messico nel 2009 ed estradato negli Stati Uniti, era in effetti molto attesa. Zambada è stato tra i leader del cartello di Sinaloa per quasi un decennio e recentemente si è dichiarato colpevole di traffico di droga. Suo padre, Ismael “El Mayo” Zambada García, un tempo gestiva il cartello con El Chapo ed è tuttora ricercato. Una delle prime domande che l’accusa ha rivolto a Zambada in aula è stata: «Cosa fa tuo padre per vivere?». «Mio padre è il capo del cartello di Sinaloa», ha risposto lui.
Da quando è iniziato il processo a El Chapo, altre sette persone che dicono di aver lavorato con lui hanno testimoniato: ma nessuno aveva più familiarità con la struttura di Vicente Zambada Niebla. L’uomo ha parlato per più di cinque ore dei percorsi del contrabbando, delle tecniche del riciclaggio di denaro sporco, delle vendette personali, dei milioni di dollari pagati per le tangenti alla polizia e delle guerre tra i vari cartelli. «È stato un tradimento stupefacente da parte di un uomo che ha iniziato a lavorare per il cartello da adolescente», ha scritto il New York Times.
Come parte del suo accordo di patteggiamento, Zambada ha accettato la confisca di beni per oltre 1,3 miliardi di dollari e la collaborazione con i procuratori federali. In cambio, il governo ha permesso alla famiglia di Zambada di trasferirsi negli Stati Uniti. Fin da piccolo, ha spiegato, Zambada partecipava alle riunioni del cartello con suo padre, e poi «a poco a poco» aveva «cominciato ad essere coinvolto negli affari». Con il passare degli anni Zambada aveva “fatto carriera”, occupandosi della gestione delle spedizioni di cocaina dalla Colombia al Messico e dal Messico attraverso il confine degli Stati Uniti verso città come Chicago e Los Angeles.
Zambada ha fatto un resoconto dettagliato di come enormi quantità di cocaina e metanfetamine venivano trasportate negli Stati Uniti. Ha detto che il cartello ingaggiava delle famiglie con cittadinanza americana che vivevano a El Paso, in Texas, per attraversare il confine messicano più volte al giorno e tornare poi negli Stati Uniti portando con sé la merce nelle auto. Ha detto che per il trasporto sono stati utilizzati anche dei treni e che dal Sud America al Messico sono stati usati dei sottomarini che venivano avvicinati da barche veloci in acque internazionali e portavano la merce sulla costa, dove veniva caricata sulle auto. Zambada ha detto che una spedizione sottomarina coordinata da lui trasportava almeno cinque tonnellate di cocaina.
Zambada ha poi parlato di un incontro che sarebbe avvenuto nel 2008 con un gruppo di “politici di alto livello” e i rappresentanti di Pemex, la compagnia petrolifera nazionale messicana: si sarebbe discusso di un piano per la spedizione di 100 tonnellate di cocaina in una nave cisterna di proprietà dell’azienda. L’uomo ha detto però di non sapere se la spedizione sia andata a buon fine, perché è stato arrestato poco dopo l’incontro. Un portavoce di Pemex si è rifiutato di commentare.
Zambada era anche responsabile dei pagamenti che venivano fatti agli agenti corrotti a tutti i livelli delle forze dell’ordine messicane: ha detto che ogni mese veniva speso circa un milione di dollari in tangenti, e che El Chapo gli ha raccontato personalmente l’evasione del 2001, quando riuscì a corrompere alcuni agenti della prigione messicana dove era detenuto per uscire dal carcere nascosto in un carrello della lavanderia. El Chapo gli avrebbe descritto l’ansia che provava tra le lenzuola e le coperte nel carrello, e gli avrebbe detto che gli ultimi minuti gli erano sembrati un’eternità.
Il cartello, ha testimoniato Zambada, avrebbe anche cercato di aiutare il fratello di El Chapo a fuggire dalla prigione. L’idea, ha detto, era pilotare un elicottero fin sopra al cortile dell’ora d’aria e calare una “bolla d’acciaio” che potesse proteggere l’uomo dalle pallottole mentre veniva legato a delle corde. Il piano non è mai stato realizzato e il fratello di El Chapo è stato ucciso in prigione nel 2004. Zambada ha infine raccontato ai giurati le conversazioni in cui El Chapo avrebbe ordinato l’uccisione di alcuni membri del cartello e molti dettagli personali su dozzine di rivali e partner commerciali, evidenziando il livello di accesso che aveva all’interno dell’organizzazione.
Il processo contro El Chapo è iniziato lo scorso 13 novembre davanti alla Corte federale di Brooklyn: è accusato di 17 diversi capi d’accusa, tutti legati alle 155 tonnellate di cocaina che si pensa abbia fatto arrivare negli Stati Uniti. Lui si è dichiarato non colpevole. El Chapo è negli Stati Uniti dal gennaio 2017. Fu estradato dal Messico il giorno prima dell’insediamento del presidente Donald Trump, secondo alcuni come segno di buona volontà e collaborazione da parte del governo messicano. Gli Stati Uniti ottennero l’estradizione a patto che non lo condannassero a morte. Nel suo paese El Chapo era riuscito due volte a evadere e aveva dimostrato di avere un grande controllo su molte persone. L’ultimo arresto fu all’inizio del 2016, quando le forze speciali messicane fecero irruzione nell’appartamento in cui si trovava: uccisero cinque sue guardie ma lui riuscì a scappare dalle fogne e rubare un’auto. I militari lo trovarono e arrestarono però poco dopo.