Le donne ostaggio di Boko Haram che tornano dai loro rapitori
Perché non riescono a riadattarsi alla loro vita precedente, oppure perché quella vita precedente non è poi così migliore della vita con Boko Haram
La giornalista Adaobi Tricia Nwaubani ha raccontato sul New Yorker le storie di alcune donne nigeriane rapite dal gruppo terroristico Boko Haram che una volta liberate, nonostante i programmi di deradicalizzazione messi in piedi dal governo della Nigeria, hanno deciso di tornare volontariamente dai loro sequestratori. Sono storie che raccontano una delle parti meno conosciute dei rapimenti di massa compiuti negli ultimi anni da Boko Haram, tra cui quello a cui seguì la campagna mondiale chiamata “Bring Back Our Girls“: cioè le conseguenze spesso profonde e irreversibili della radicalizzazione forzata e dei matrimoni con i miliziani a cui sono costrette le donne sequestrate.
La storia principale raccontata da Nwaubani è quella di Aisha, che fu rapita da Boko Haram nell’aprile 2013 quando aveva 21 anni, un figlio e un ex marito con cui era stata sposata sette anni. Nwaubani ebbe la possibilità di parlare con lei nel gennaio 2017, dopo che era stata liberata e prima che decidesse di tornare dai suoi rapitori.
Aisha fu sequestrata insieme a molte altre donne e bambini durante un attacco di Boko Haram contro un contingente di soldati nigeriani nella città di Maiduguri, nel nord della Nigeria: cercò di nascondersi in un bosco per scappare dai miliziani, che però alla fine la trovarono, la caricarono su un camion e la portarono nella foresta di Sambisa, 60 chilometri a sudest di Maiduguri, dove sarebbe rimasta per tre anni. Il sequestro di Aisha non fu un caso isolato: nel 2013 Boko Haram era un gruppo già noto e attivo da diverso tempo.
Boko Haram è un gruppo islamista radicale che opera nel nord della Nigeria dal 2002, anno della sua fondazione. Negli ultimi 17 anni ha compiuto decine di attacchi terroristici, massacrato interi villaggi e rapito migliaia di giovani donne liberate dopo il pagamento di un riscatto o costrette a diventare le spose dei miliziani del gruppo. Nel 2011 il governo nigeriano avviò una grande operazione militare che costrinse Boko Haram a lasciare la sua storica base, la città di Maiduguri, e rifugiarsi nella foresta di Sambisa: le violenze però non terminarono, e nemmeno i sequestri.
Le storie nel diario di una delle 275 studentesse rapite da Boko Haram
Aisha fu portata in uno dei rifugi di Boko Haram, in mezzo a una radura circondata da tamarindi e baobab. Fu accompagnata insieme alle altre donne in una tenda e le fu dato da mangiare, da bere e le fu detto di riposare: «In quel momento iniziai a pensare che [i miliziani di Boko Haram] non fossero persone così cattive come si diceva in giro», raccontò poi Aisha a Nwaubani.
Aisha iniziò la sua vita dentro Boko Haram come schiava, compiendo gli ordini delle mogli dei miliziani e soprattutto passando 11 ore al giorno a scuola di Corano, dove le fu inculcata una visione dell’Islam molto radicale. Viveva insieme alle altre donne in piccole tende, dove ogni giorno arrivavano nuovi miliziani per scegliere le loro nuove mogli.
Fu così che Aisha conobbe Mamman Nur, comandante di alto rango e stretto consigliere di Abubakar Shekau, il leader del gruppo, su cui già allora il governo nigeriano aveva messo una taglia di 140mila euro. Aisha raccontò che Nur le faceva molti complimenti e le cantava canzoni in arabo: «Era molto romantico. Mi riempiva di regali, come pacchi molto costosi e gioielli, tutte quelle cose che piacciono alle donne». Si sposarono quattro mesi dopo il rapimento ed ebbero un figlio un anno dopo il matrimonio: Aisha andò a vivere nella casa di Nur come ultima delle sue quattro mogli. «Ero la sua favorita. Ogni volta che volevo stare con lui, metteva tutto in secondo piano per darmi quello di cui avevo bisogno». Quando Aisha gli chiese di separarsi dalla sua seconda moglie, Nur lo fece.
Nelle conversazioni tra Aisha e Nwaubani, avvenute dopo la liberazione di Aisha e prima del suo ritorno volontario alla foresta di Sambisa, le due donne trattarono anche il tema delle violenze sessuali. Aisha raccontò a Nwaubani di non essere mai stata stuprata, né di avere subìto tentativi di violenza sessuale. In molte altre situazioni, però, le cose sono andate diversamente.
Molte donne rapite da Boko Haram hanno raccontato di essere state stuprate, nonostante sulla carta le regole del gruppo lo vietino. Secondo le testimonianze raccolte da Amnesty International nel 2014-2015 di diverse donne rapite da Boko Haram e poi liberate, i miliziani andavano di nascosto di notte nelle loro tende, le stupravano e poi se ne andavano: chi veniva scoperto subiva un’uccisione pubblica che tutti erano costretti a guardare. Prima di intervistare Aisha, Nwaubani aveva parlato con diverse studentesse rapite dalla scuola di Chibok nel 2014, quelle di “Bring Back Our Girls”: aveva scritto che molte di loro erano state scelte dai miliziani per diventare le loro nuove mogli e poi erano state costrette ad avere rapporti sessuali una volta celebrato il matrimonio, una cosa che le regole di Boko Haram non considerano un crimine.
C’è poi un’altra considerazione da fare rispetto alla storia di Aisha, ha scritto Nwaubani. Molte donne che vivono nel nord della Nigeria, una delle regioni più povere e arretrate del paese, vengono costrette a sposarsi e ad avere figli quando sono molto giovani; hanno bisogno del permesso del marito per uscire di casa e hanno poco o nessun potere decisionale dentro e fuori la famiglia. Molte delle libertà di cui noi pensiamo vengano private, una volta sequestrate da Boko Haram, in realtà non le hanno mai avute, anzi. Fatima Akilu, psicologa che dirige la Neem Foundation, responsabile di un programma di deradicalizzazione per le donne rapite da Boko Haram, ha detto al New Yorker: «Le persone spesso non si rendono conto di quanta libertà di scelta Boko Haram dà alle donne», rispetto al loro contesto di partenza. Le mogli dei comandanti del gruppo hanno spesso molta più libertà di quella garantita al resto delle donne che abita questa regione della Nigeria.
Un giorno Aisha decise di accompagnare il marito in un’azione di combattimento, insieme ad altri miliziani di Boko Haram. Appena uscito dalla foresta, il gruppo fu scoperto dai soldati nigeriani, che cominciarono a sparare. Ci furono dei morti, Aisha fu liberata insieme a suo figlio e riportata a casa. Erano passati tre anni dal suo rapimento.
Come molte altre donne rapite da Boko Haram e poi liberate, anche Aisha fu sottoposta a un programma di deradicalizzazione lungo e complicato. Fatima Akilu, psicologa della Neem Foundation, ha detto: «Quando iniziammo a lavorare con le mogli dei miliziani di Boko Haram, fu piuttosto dura. Arrivavano qui molto combattive, perché si sentivano parte di un gruppo speciale e privilegiato. Avevano vissuto nella foresta in un relativo lusso… e sentivano che non c’era nulla che potevamo offrire loro». Molte donne rifiutavano inoltre qualsiasi interpretazione del Corano che fosse diversa da quella insegnata loro durante la permanenza con Boko Haram, e non solidarizzavano in alcuna maniera con le vittime che avevano subìto le violenze dei loro mariti.
Anche Aisha fu portata in una “safe house”, una delle case sicure messe in piedi dal governo o da organizzazioni del settore, e fu messa in stanza insieme ad altre donne che avevano avuto esperienze simili alla sua. All’inizio ad Aisha fu riconosciuto il ruolo di leader del gruppo, perché suo marito aveva un rango più alto dei mariti delle altre donne inserite nello stesso programma: «Quando sono arrivata qui, mi rispettavano tutti. Ogni volta che mio figlio si sporcava, le persone facevano a gara per pulirlo al posto mio. Ora tutto è cambiato», ha raccontato Aisha a Nwaubani dopo avere trascorso un periodo di tempo nella “safe house”. Aisha pensava ancora alla sua vita insieme a Nur, che nel frattempo aveva co-fondato un nuovo gruppo che aveva giurato fedeltà allo Stato Islamico (o ISIS): «Sarei stata la moglie di un uomo importante», disse poi Aisha.
Anche Aisha inizialmente si rifiutò di criticare Boko Haram: «Avevo in testa che eravamo quelli dalla parte del giusto. Credevo a tutto quello che mi veniva detto». Dopo qualche mese dall’inizio del programma di deradicalizzazione – con lezioni di religione e sedute psicologiche – Aisha cominciò a mettere in discussione molte cose: per esempio che Boko Haram fosse effettivamente l’unico governo legittimo della Nigeria, come le avevano insegnato, e che chiunque non combattesse per il gruppo doveva essere considerato un infedele. Aisha cominciò inoltre a rivalutare il suo rapporto con Nur, a cui si era sentita profondamente legata nel periodo successivo alla loro separazione: «Anche se non posso dimenticarlo, non potrei mai tornare da lui, perché la mia vita e la sua non sono più le stesse. Anche se dovesse venire a cercarmi, non lo seguirei».
All’inizio del 2017 Aisha fu considerata sufficientemente deradicalizzata e le fu data l’autorizzazione per tornare a casa dalla sua famiglia. Nelle settimane successive, fino alla sua fuga, rimase in contatto con Nwaubani, con cui si scambiava messaggi e foto. «Mi mandava spesso foto di lei vestita elegante per uscire la sera, molto truccata e con le ciglia finte. Aveva l’impressione che le prime settimane fuori dalla “safe house” fossero per lei molto eccitanti», ha scritto Nwaubani sul New Yorker. Poi, piano piano le cose cominciarono a cambiare.
Alcune donne che erano state nella “safe house” con Aisha decisero di tornare nella foresta di Sambisa, dove Boko Haram aveva iniziato a riunirsi e riorganizzarsi. I familiari delle donne cominciarono a visitare regolarmente Aisha per sapere se avesse notizie, e allo stesso tempo le mogli dei miliziani la chiamavano per invitarla a unirsi di nuovo al gruppo. Aisha iniziò a isolarsi e rifiutare il cibo e i suoi familiari cominciarono a sospettare qualcosa: decisero di non lasciarla mai sola, ma un pomeriggio si distrassero e lei scappò. Portò con sé il figlio di due anni che aveva avuto con Nur e lasciò a casa quello di sette che aveva avuto col suo primo marito.
Da allora di Aisha non si sa più nulla. Nonostante i molti tentativi di contattarla, nessuno dei suoi familiari è riuscito più a parlare con lei. Nel settembre 2018 un giornale locale ha scritto che Nur era stato ucciso da miliziani del suo stesso gruppo: la notizia non è però stata confermata da fonti affidabili.