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  • Lunedì 31 dicembre 2018

Cosa vuol dire “perpetrare”

Si possono "perpetrare" azioni illecite o criminose, disoneste o riprovevoli: ma in latino questa parola aveva un significato più ampio

di Massimo Arcangeli

«Hai patito il più odioso dei tradimenti perpetrato nei tuoi confronti dal tuo sangue, dal tuo stesso sangue». Così il mago oscuro Gellert Grindewald (Johnny Depp) si rivolge al timido Credence Barebone (Ezra Miller), anche lui un incantatore, nel secondo episodio di Animali Fantastici (I crimini di Grindelwald), il sequel diretto da David Yates e scritto da J. K. Rowling, l’autrice della fortunata saga di Harry Potter.

Si possono perpetrare, oltre a un tradimento, un furto o un omicidio, una beffa o un misfatto, un danno o un’ingiustizia, un abuso o un rapimento. Tutte azioni illecite o criminose, disoneste o riprovevoli, esprimibili in molti casi con consumare o commettere, oppure con equivalenti più generici di perpetrare (compiere, attuare, portare a termine). Di un reato, o di un qualunque altro atto illegale, infamante o delittuoso, ci si può anche macchiare, ma macchiarsi, se è altrettanto specifico di perpetrare, si costruisce in modo diverso: perpetrare è transitivo, macchiarsi è intransitivo.

L’origine di perpetrare è un verbo latino identico a quello italiano nella forma, ma dai significati neutri o positivi oltreché negativi: al compimento di un delitto (crimen o facinus) o di una strage (caedes), di un atto peccaminoso o di un’azione ladronesca (latrocinium), il latino perpetrare aggiungeva il riferimento alla fine di una guerra, al mantenimento di una promessa, alla celebrazione di un rito, all’esecuzione di un sacrificio e a molto altro ancora. Era d’altronde da escludere che potesse contenere in sé i soli significati negativi del suo successore italiano. Perpetrare, nell’antica lingua di Roma, era un derivato di patrare (‘compiere’, ‘operare’, ‘porre in opera’, ‘concludere’), e alla base di quest’ultimo c’è pater (‘padre’). Se pensiamo a patria, paterno o padrefamiglia, i cui precedenti sono anche in questo caso latini (patria, paternus, paterfamilias), riesce difficile immaginare, per una qualunque parola imparentata con pater, la totale assenza di valori semantici positivi.

Che il latino perpetrare, e lo stesso patrare, potessero far riferimento anche ad atti turpi o illegali è presto spiegato. Patrare trovava spesso applicazione in campo giuridico e in ambito politico-militare, settori in cui la violazione di un patto o l’esercizio dell’inganno sono argomenti familiari o presenze consuete. Il pater patratus (“padre stipulatore”) era il titolo attribuito a chi capeggiava, nella Roma repubblicana dei primi secoli (e poi in età augustea), una speciale delegazione: due o quattro fetiales legati (“sacerdoti ambasciatori”) incaricati dal loro collegio di venti araldi di consacrare alleanze, di appianare contrasti, di formalizzare trattati di pace o di tregua con un popolo straniero, oppure di dichiarargli guerra (in tal caso il pater patratus, pronunciata la clarigatio, la formula di rito, lanciava in territorio nemico un’asta appuntita lordata di sangue), seguendo un cerimoniale prestabilito. Un rituale dal quale ha tratto origine l’espressione patrare iusiurandum, con cui la lingua latina indicò l’atto di pronuncia della formula di giuramento, da parte del pater patratus, eseguito a conclusione della cerimonia. La formula era indispensabile per “sigillare” il patto, o per decretarne la violazione e il conseguente scioglimento nel caso in cui Roma avesse deciso di dare inizio alle ostilità.

P.S. Se c’è qualche parola poco usata che vi piacerebbe trattassi in questa rubrica, fra le tante dell’italiano a rischio d’estinzione, segnalatemela e vi accontenterò volentieri. E magari aggiungete alla vostra proposta un commento o una bella citazione, come ho fatto io all’inizio del pezzo che avete appena finito di leggere.

Alla vigilia del Festival “Parole in cammino” che si è tenuto ad aprile a Siena, il suo direttore Massimo Arcangeli – linguista e critico letterario – ha raccontato pubblicamente le difficoltà che hanno i suoi studenti dell’università di Cagliari con molte parole della lingua italiana appena un po’ più rare ed elaborate, riflettendo su come queste difficoltà si estendano oggi a molti, in un impoverimento generale della capacità di uso della lingua. Il Post ha quindi proposto ad Arcangeli di prendere quella lista di parole usata nei suoi corsi, e spiegarne in breve il significato e più estesamente la storia e le implicazioni: una al giorno.