La sanità per come la conosciamo c’è da meno di 40 anni
Il Servizio sanitario nazionale fu istituito con una legge del 23 dicembre 1978, ma ci volle tempo perché fosse messo in piedi (e ancora oggi ha diversi problemi)
Quando si parla di politica americana una delle cose più difficili da capire per chi vive in Italia e in Europa è il continuo dibattito sul sistema sanitario pubblico, che negli Stati Uniti è quasi inesistente: per potersi pagare le spese mediche le persone sono costrette a stipulare una polizza assicurativa privata. È una cosa impensabile per chi è abituato a ricevere cure gratis dallo stato. Eppure, avere a disposizione un Servizio sanitario nazionale (SSN) non è così comune come si potrebbe credere. Anche in Italia non c’è da tantissimo tempo: la legge per istituirlo fu approvata appena 40 anni fa, il 23 dicembre 1978, e ci vollero molti altri anni perché diventasse quello che conosciamo (con tutte le sue storture, su cui medici e politici discutono fin dall’inizio).
La storia del Servizio sanitario nazionale
L’articolo 32 della Costituzione, entrata in vigore il primo gennaio 1948, dice:
La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti.
Come ha spiegato la giornalista e divulgatrice scientifica Silvia Bencivelli sulla rivista il Tascabile, nel mondo si era iniziato a parlare della salute come di un diritto soltanto dopo la Seconda guerra mondiale. Il primo documento ufficiale a dirlo fu la Costituzione dell’Organizzazione mondiale della Sanità (OMS), firmata nel 1946 ed entrata in vigore due anni dopo. Definisce la sanità come «stato di completo benessere fisico, mentale e sociale» che «non consiste solo in un’assenza di malattia o d’infermità» ed afferma che «il possesso del migliore stato di sanità possibile costituisce un diritto fondamentale di ogni essere umano».
La Costituzione italiana fu influenzata da queste idee, ma anche dal modello di sanità britannica, anche detto “modello Beveridge”: prende il nome dell’economista William Beveridge, che nel 1942 propose che tutti i cittadini attivi pagassero un’imposta per sostenere le spese mediche per i malati, i disoccupati e i pensionati. Il servizio sanitario britannico fu il primo a essere pagato dalla fiscalità generale e non, come succede e già succedeva in Germania e in altri paesi, attraverso assicurazioni sanitarie obbligatorie. In Germania questo sistema fu introdotto nel 1948, mentre per quello italiano – nonostante quanto affermato nella Costituzione – ci volle molto più tempo.
Dall’inizio della repubblica e fino al 1978 a occuparsi di coprire i costi delle spese mediche degli italiani erano le cosiddette “mutue”, cioè le società di mutuo soccorso: associazioni di lavoratori nate nella seconda metà dell’Ottocento per coprire le spese mediche dei propri membri in caso di incidenti sul lavoro e malattia oppure per fare da sussidio in caso di disoccupazione (ancora oggi qualcuno chiama il Servizio sanitario nazionale “la mutua”). Tutti i membri pagavano una quota a beneficio di chi ne aveva bisogno. Durante il periodo fascista c’era stato un tentativo di riorganizzarle – tra le altre cose prevedendo fossero obbligatorie per tutti i lavoratori – ma non era stato portato a termine.
Con la ripresa economica degli anni Cinquanta il loro numero era aumentato. Il problema del sistema delle mutue era che la qualità dell’assistenza ricevuta dai malati dipendeva dal tipo di professione che svolgevano: era dunque un sistema ingiusto, in cui era avvantaggiato chi aveva una situazione economica migliore. I livelli di assistenza erano molto disomogenei, l’intero sistema dispendioso e inefficiente.
Nel 1958 ci fu un primo miglioramento della situazione con l’istituzione del ministero della Salute; in precedenza, le sue competenze erano coperte dal ministero dell’Interno. Per molti anni, il neonato ministero ebbe risorse finanziarie scarse e compiti vaghi. Ci vollero altri dieci anni per un miglioramento più significativo: arrivò con la riforma ospedaliera comunemente chiamata legge Mariotti, dal nome dell’allora ministro Luigi Mariotti del Partito Socialista Italiano.
Fino alla sua entrata in vigore, nel 1968, gli ospedali erano gestiti da organizzazioni di beneficenza ed erano posti dove si andava «a morire, a farsi accogliere se poveri o dove si abbandonavano i neonati», ha raccontato Bencivelli. Secondo un’inchiesta pubblicata dal Tempo, in Italia nel 1965 mancavano 250mila posti letto, e la maggior parte delle strutture era fatiscente e arretrata. Con la legge Mariotti gli ospedali divennero enti pubblici, organizzati dalle regioni e finanziati dallo stato, dove chiunque riceveva assistenza gratuita.
Solo con la legge 883 del 1978, anno in cui era ministra della Salute la democristiana Tina Anselmi, il sistema sanitario italiano si avviò a diventare quello che è oggi. La legge stabilì l’abolizione del sistema delle mutue e istituì il Servizio sanitario nazionale. Tra gli altri, si poneva come obiettivi «il superamento degli squilibri territoriali nelle condizioni socio-sanitarie del paese» e «la prevenzione delle malattie e degli infortuni in ogni ambito di vita e di lavoro», cosa di cui le mutue (così come le assicurazioni sanitarie negli Stati Uniti) non si occupavano, non avendone interesse. Tra i principi fondativi dell’SSN c’è anche l’impegno a mantenere «l’eguaglianza dei cittadini nei confronti del servizio».
La storia dell’SSN in un video del ministero della Salute, che la prende abbastanza da lontano:
Il sistema non cambiò da subito: la legge sarebbe entrate in vigore nell’estate del 1980 ed era una misura quadro, cioè aveva bisogno di altre leggi per essere completamente definita. Alcune non sono mai state approvate, altre arrivarono solo negli anni Novanta: come ad esempio quella che istituì il Piano sanitario nazionale, lo strumento con cui si programmano gli obiettivi da raggiungere per migliorare il funzionamento dell’SSN e la salute dei cittadini a livello nazionale, nato nel 1994.
Quanto costa l’SSN?
Non è raro che i giornali si occupino delle storture del sistema sanitario italiano, e spesso nel dibattito si è anche parlato del suo costo, definito eccessivo e oberato dagli sprechi. In realtà, non è molto elevato rispetto a quanto si spende negli altri paesi sviluppati: secondo il rapporto Health at a Glance Europe 2018 dell’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE), in media in Italia si spendono ogni anno 2.251 euro a persona per l’SSN, contro i 3.045 del Regno Unito, i 3.572 della Francia e i 4.160 della Germania. Rispetto alla media di tutti i paesi, la spesa pro capite annuale italiana, del settore pubblico, è minore di quasi 400 euro. Si spende meno anche a parità di potere d’acquisto e il confronto con gli Stati Uniti, dove come si sa il sistema sanitario non è universale, è a favore dell’Italia: negli Stati Uniti la spesa annuale pro-capite è superiore agli 8mila euro – comprese anche le assicurazioni private – e nonostante questo l’aspettativa di vita alla nascita è più bassa sia per gli uomini che per le donne.
Rispetto al PIL l’Italia spende in sanità, pubblica e privata, una percentuale minore di quella media dell’Unione Europea: 8,9 per cento nel 2017, contro il 9,6 per cento del Regno Unito, l’11,3 per cento della Germania e l’11,5 per cento della Francia. Si potrebbe pensare che a una spesa minore corrisponda un peggior stato di salute generale, ma in Italia si vive di più che in tutti questi paesi: solo in Spagna, tra i paesi europei, l’aspettativa di vita è più alta.
È però vero che secondo l’OMS c’è una soglia minima da non superare perché l’aspettativa di vita delle persone non si abbassi: 6,5 per cento del PIL, per quanto riguarda la sanità pubblica. In Italia negli ultimi anni questa percentuale è diminuita: nel 2010 era pari al 7,3 per cento, nel 2017 al 6,7 e, secondo il Documento di economia e finanza (DEF) del Consiglio dei ministri del 2018, arriverà al 6,3 per cento nel 2020.
Quali sono i problemi
Ce ne sono molti, ma il principale è che non è mai stato raggiunto uno degli obiettivi della legge del 1978, cioè l’uniformità delle cure a prescindere dalla regione e dal ceto dei cittadini: in certe regioni il sistema sanitario funziona nettamente meglio che in altre. Secondo i dati statistici dell’ISTAT sullo stato di salute degli italiani, ad esempio, il 49 per cento delle persone che hanno più di 65 anni e vivono al Sud ha almeno una malattia cronica grave, contro il 39 per cento degli anziani che vivono al Nord. Anche considerando le altre fasce d’età, al Nord ci sono comunque meno malati. Altre differenze nello stato di salute e nell’aspettativa di vita esistono in base al titolo di studio e al reddito – chi è più ricco e istruito vive mediamente di più, insomma – anche se all’interno della stessa città.
Tra le ragioni di poca equità c’è anche il fatto che i cittadini disposti a pagare una cifra superiore a quella standard possano fare un esame o ricevere una diagnosi molto prima di chi deve aspettare il proprio turno nella lista d’attesa, anche se il medico che se ne occupa è lo stesso: succede perché dal 1999 i medici ospedalieri possono esercitare la libera professione anche all’interno del proprio ospedale (è la cosiddetta intramoenia, introdotta nel 1999).
Altri problemi dell’SSN e questioni che si dovranno affrontare in futuro le ha riassunte Giuseppe Remuzzi, medico, professore e direttore dell’Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri nel libro La salute (non) è in vendita. C’è ad esempio un problema di sostenibilità economica: l’SSN ha accumulato 90 miliardi di euro di debiti e deve pagarne 40 di fatture arretrate. Secondo molti – tra cui l’Organizzazione mondiale del commercio (WTO) – il problema dei conti che non tornano si risolverebbe con una maggiore privatizzazione del sistema sanitario. Secondo Remuzzi e altri medici non è così, e lo dimostrano prima di tutto i dati sulla spesa e sull’aspettativa di vita, migliori di quelli dei paesi che usano altri sistemi. È però vero che altri dati internazionali, come quelli dell’Euro health consumer index, realizzato dall’organizzazione svedese Health Consumer Powerhouse, dicono che in Italia si vive più a lungo ma con condizioni di salute peggiori: la questione è complessa e secondo Remuzzi non si risolverebbe smantellando l’SSN, ma migliorandone l’efficacia.
Ci sono poi due grossi problemi che si faranno notare di più nei prossimi anni: uno è che con il progressivo invecchiamento della popolazione e il conseguente aumento di malattie croniche, i costi della sanità sono destinati a gonfiarsi. Il secondo è che esiste e continuerà a farlo una diffusa carenza di medici: l’età media di chi si occupa di medicina generale (i cosiddetti medici di famiglia) è di 53 anni, quella dei medici ospedalieri di 55 anni, e si calcola inoltre che nei prossimi dieci anni 80mila medici andranno in pensione.
È un problema perché con il blocco delle assunzioni e i complessi meccanismi di accesso alla professione – test d’ingresso all’università, concorso per entrare in specialistica dopo la laurea, percorso di studi lungo più di dieci anni – al momento non ci sono abbastanza medici giovani per sostituire quelli che andranno in pensione.