L’incidente aereo di Punta Raisi, quarant’anni fa
Poco dopo la mezzanotte un aereo diretto all'aeroporto di Palermo finì in mare: c'erano a bordo 129 persone, 108 delle quali morirono
Quarant’anni fa, trentotto minuti dopo la mezzanotte del 23 dicembre 1978, il volo Alitalia 4128, partito da Roma Fiumicino, finì in mare a pochi chilometri dalla pista d’atterraggio di Punta Raisi, l’aeroporto di Palermo verso cui era diretto. Nell’impatto con l’acqua, l’aereo si spezzò in due. C’erano a bordo 129 persone, 108 delle quali morirono.
La responsabilità dell’incidente fu attribuita a un errore dei piloti nelle procedure di avvicinamento alla pista. Secondo le ricostruzioni, i piloti finirono troppo presto vicino al mare, a una quota troppo bassa. La maggior parte dei passeggeri morì nell’impatto; altri morirono annegati o assiderati. I passeggeri che si salvarono furono invece recuperati da alcune barche arrivate sul posto. L’aereo non sarebbe tra l’altro dovuto arrivare di notte: atterrò a quell’ora perché aveva avuto alcune ore di ritardo alla partenza da Fiumicino.
Dopo l’incidente, alcuni piloti ed esperti di aviazione dissero che poteva essere stato causato da una particolare illusione ottica che si verifica quando ci si avvicina a una pista di notte. Semplificando un po’, il fenomeno, noto come black-hole approach, fa sì che – in assenza di luce o punti di riferimento a terra (o in mare) – si possa credere di essere più vicini alla pista di quanto non si sia in realtà. Carlo Pavone, uno dei sopravvissuti, raccontò qualche anno fa a Live Sicilia che dall’interno dell’aereo non si capì quello che stava per succedere: «Ci ritrovammo in acqua all’improvviso, non avevamo capito che stavamo precipitando».
Ricordo perfettamente che ero convinto ormai di essere giunto a casa. Nello stesso istante mi trovai in fondo al mare. Vidi i sedili che si sganciavano, quando riemersi mi ritrovai circondato da teste galleggianti. Il buio era fitto intorno a noi. Il terrore provocò una raffica di pensieri nella mia mente perché credevo sarei morto e che avrei perso tutto quello che avevo costruito fino a quel momento. Allora mi trovai di fronte a un bivio: nuotare fino alla riva, che era però troppo distante, o attendere che si avvicinassero i pescherecci le quali luci, probabilmente, erano state scambiate dai piloti per quelle dell’aeroporto.
Pavone ha anche raccontato di come riuscì a nuotare fino al peschereccio “Santa Rita”, che lo soccorse insieme ad altri passeggeri:
Mi aiutarono a salire. Mi appoggiai solo con le braccia, non sentivo le gambe. Volevo rialzarmi, dare una mano per mettere al sicuro gli altri. Ma non ci riuscii. Allora mi trascinai in un angolo coprendomi con una ceratina, dopo mezz’ora nell’acqua ghiacciata ero distrutto. Vidi un uomo che stava salendo sulla scaletta del peschereccio. Con le braccia deboli stava per arrivare su, ma poi mollò la presa. Si sarebbe salvato, come tante altre decine di persone, se fossero arrivati i soccorsi via mare. Invece nulla, fummo lasciati da soli in mezzo al nulla.
L’incidente aereo del 1978 non fu l’unico ad avere a che fare con Punta Raisi. Nel 1972 il volo AZ112 in fase di atterraggio verso l’aeroporto di Palermo si era schiantato contro la montagna Longa, causando la morte di 115 persone. E nel 1980 ci fu la strage di Ustica, quando 81 persone morirono per un incidente, dalle cause mai del tutto chiarite, dopo che un aereo – diretto a Punta Raisi – precipitò tra le isole di Ponza e Ustica.