Ci sarà un secondo referendum su Brexit?
Se ne parla sempre di più e nelle ultime settimane ci sono state diverse aperture, ma resta un'ipotesi molto complicata da attuare
Più passa il tempo, maggiori sono le possibilità che lo stallo su Brexit si risolva con una soluzione radicale. Una di queste è l’uscita del Regno Unito dall’Unione Europa senza alcun accordo: al momento è richiesta da alcuni politici Conservatori ma osteggiata da una grande maggioranza dei parlamentari, soprattutto perché comporterebbe conseguenze molto negative a breve e medio termine. Un’altra soluzione radicale sarebbe un secondo referendum su Brexit. È un’ipotesi che fino a poco tempo fa era considerata quasi impensabile, ma che sta prendendo sempre più concretezza.
Fra ieri e oggi se n’è parlato parecchio, dopo che un articolo del Sunday Times aveva suggerito che due dei più stretti collaboratori della prima ministra Theresa May – il suo capo di gabinetto Gavin Barwell e il coordinatore dei lavori del governo David Lidington – stavano preparando il terreno per proporre un nuovo referendum, appoggiati da altri cinque ministri. Sia Barwell sia Lidington hanno smentito l’articolo del Times. In un discorso che May terrà oggi in Parlamento, anticipato alla stampa britannica, la prima ministra dirà che un nuovo referendum «dividerebbe ulteriormente il paese in un momento in cui dovremmo lavorare per unirlo».
Quasi certamente, il discorso di May non eviterà ulteriori speculazioni su un secondo referendum. Secondo una stima di una settimana fa, circa un parlamentare su cinque sarebbe favorevole a un nuovo voto. Paul Butters, portavoce di un gruppo di attivisti a favore di un nuovo referendum, ha raccontato che negli ultimi tempi diversi parlamentari stanno ricevendo pressioni da una parte del proprio elettorato per considerare questa opzione. Del resto, come ha raccontato al Washington Post Tim Bale, che insegna scienze politiche alla Queen Mary University di Londra, un nuovo referendum potrebbe diventare «l’unica via d’uscita da un palazzo in fiamme».
Dopo quasi due anni di negoziati dopo il primo referendum, Brexit è finita in un limbo. L’accordo trovato dai negoziatori europei e britannici è frutto di un complesso compromesso, ma non piace quasi a nessuno, soprattutto ai sostenitori di una Brexit più “dura”, cioè con meno legami con l’Unione Europea, che sono forti abbastanza da bloccare l’approvazione dell’accordo in Parlamento, ma non hanno sufficienti numeri per sostituire May. Qualcuno di loro potrebbero essere convinto da eventuali – e sostanziali – modifiche all’accordo, che però vengono decisamente escluse dall’Unione Europea.
Un nuovo referendum potrebbe consegnare un mandato più chiaro alla fazione vincitrice, a seconda del risultato: che siano i sostenitori dell’accordo di May, o di una Brexit senza alcun accordo, oppure della permanenza nell’Unione Europea (che il Regno Unito può decidere unilateralmente). Ma perché fino a poco tempo fa nessuno aveva preso sul serio questa ipotesi?
Prima di tutto perché molto raramente la stessa questione viene sottoposta più di una volta a un referendum, se non a distanza di parecchi anni. La seconda ragione è prettamente politica. Il partito Laburista guidato da Jeremy Corbyn ha iniziato a riguadagnare voti nel momento in cui ha preso atto dell’uscita dall’Unione, recuperando le persone che negli ultimi anni non si erano più sentite rappresentate dal partito: e infatti i Laburisti parlano del secondo referendum con molta cautela, ad eccezione degli europeisti più convinti. La terza è quella citata da May: il timore che una nuova campagna elettorale divida ulteriormente il paese.
Tutte e tre queste ragioni stanno progressivamente perdendo forza. Dal voto su Brexit di giugno 2016 sono passati solo due anni e mezzo, ma nel frattempo sono successe un mucchio di cose e la questione Brexit ha avuto molti sviluppi che potrebbero giustificare una nuova consultazione. La base del partito Laburista si sta progressivamente convincendo a tenere un nuovo referendum: secondo un recente sondaggio di YouGov, l’86 per cento degli iscritti appoggia un nuovo voto. Infine, al contrario di quanto auspicavano i Conservatori, negli ultimi due anni e mezzo il divario fra i sostenitori e gli oppositori di Brexit si è fatto sempre più ampio, almeno nella percezione pubblica.
C’è poi un altro elemento citato spesso a sostegno di un nuovo voto, oltre al riconoscimento della condizione di stallo. Quasi nessuno, nel Regno Unito, aveva previsto che le trattative con l’Unione Europea avrebbero avuto delle conseguenze così pesanti per i britannici. Basti pensare ai soldi che il paese dovrà versare all’UE per rispettare tutti gli impegni presi finora, circa 41 miliardi di euro; oppure alle condizioni dell’economia britannica, che nei primi anni peggioreranno decisamente a prescindere dall’accordo che si troverà in caso di uscita.
La campagna per lasciare l’Unione – oltre ad aver diffuso diverse notizie false o esagerate – aveva anche lasciato intendere che i successivi negoziati sarebbero stati praticamente indolori, e in campagna elettorale quasi nessuno si concentrò sulle moltissime concessioni che il Regno Unito avrebbe dovuto fare per uscire effettivamente dall’Unione. Lo ha fatto capire Jo Johnson, ex sottosegretario ai Trasporti del governo May, che nella sua lettera di dimissioni presentata un mese fa ha spiegato: «Dato che le conseguenze di Brexit sono state molto diverse da ciò che era stato promesso, la cosa più democratica da fare sarebbe lasciare che gli elettori abbiano l’ultima parola».
Rimangono ancora parecchi ostacoli perché l’opzione di un secondo referendum diventi davvero concreta. Decine di parlamentari, sia Conservatori sia Laburisti, dovrebbero convincersi che lo stallo sia irrisolvibile, e che l’unica soluzione sia un nuovo voto. A quel punto, il governo dovrebbe negoziare una proroga del periodo di transizione, che inizia a marzo 2019 – cosa che secondo gli accordi con l’UE può essere richiesta una sola volta – e decidere quali opzioni inserire sulla scheda elettorale, e come conteggiare i voti.
Poniamo che il governo decida di inserire sulla scheda le tre opzioni più popolari, cioè l’accordo di May, la Brexit “dura” e la permanenza nell’Unione. Secondo l’esperto di sondaggi Peter Kellner, contattato in estate dall’Economist, «la stessa serie di risultati potrebbe produrre tre esiti diversi, a seconda che si scelga un sistema maggioritario secco (che sceglie l’opzione che riceve la maggioranza di prime scelte), il voto alternativo (per cui l’elettore vota facendo una classifica delle sue preferenze: le seconde preferenze dell’opzione ultima classificata si aggiungono ai voti delle prime due classificate) o il sistema Condorcet (che premia il vincitore complessivo dei tre possibili scontri diretti testa a testa)».
I britannici sembrano comunque avere le idee molto confuse. Nessuna opzione delle tre in ballo – l’accordo di May, l’uscita senza accordo, la permanenza nell’UE – sembra essere particolarmente popolare: secondo un sondaggio di YouGov realizzato a novembre, un britannico su tre crede che Brexit vada lasciata perdere e che il Regno Unito debba rimanere nell’UE. Quasi uno su due vorrebbe un accordo per uscire, ma pochissimi quello negoziato da Theresa May. Infine, un nuovo voto era l’opzione preferita di appena 8 britannici su 100 (anche se probabilmente molti di quelli che preferiscono rimanere nell’UE appoggerebbero un nuovo referendum).