Che fine ha fatto l’autonomia per le regioni del Nord
L'avevano chiesta Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna, il governo aveva promesso di concederla entro l'autunno, ma ora è tutto fermo anche per gli ostacoli messi dal Movimento 5 Stelle
In un’intervista al quotidiano Libero, la ministra per le Regioni Erika Stefani ha accusato i suoi colleghi del Movimento 5 Stelle di aver rallentato il percorso che dovrebbe portare a garantire maggiore autonomia alle tre regioni del Nord che ne hanno fatto richiesta in base all’articolo 116 della Costituzione: Emilia-Romagna, Lombardia e Veneto (queste ultime due tramite un referendum consultivo nell’ottobre 2017).
Il governo e la stessa Stefani avevano assicurato nei mesi scorsi che un primo decreto legge sull’autonomia regionale sarebbe stato approvato entro la fine dell’anno. Il vicepresidente del Consiglio Matteo Salvini lo aveva ripetuto anche ieri. Oggi però, con il governo impegnato a cercare di approvare entro la fine del 2018 la manovra economica, oltre che i decreti legge per reddito di cittadinanza e quota cento, sembra sempre più difficile che le promesse di Stefani e Salvini possano essere mantenute.
Nella sua intervista a Libero, Stefani ha accusato direttamente alcuni ministri del Movimento 5 Stelle, che nonostante le sue sollecitazioni a fornire pareri e valutazioni non hanno partecipato in alcun modo al progetto. «Non ho avuto riscontro dai ministri della Salute, dell’Ambiente e della Giustizia e poi da Lavoro e Sviluppo economico, i dicasteri di Di Maio», ha detto la ministra, indicando tutti ministeri a guida Movimento 5 Stelle.
Ufficialmente il M5S è favorevole all’autonomia e Di Maio stesso lo ha ripetuto lo scorso primo dicembre, ricordando che il Movimento sostenne i referendum ed è intenzionato a mettere in pratica la volontà degli elettori. In pratica, però, il suo partito non sembra così entusiasta di fronte alle implicazioni che potrebbe avere una concessione di maggiore autonomia alle regioni settentrionali.
La concessione dell’autonomia è prevista dal terzo comma dell’articolo 116 della Costituzione, in cui si stabilisce che le regioni con i bilanci in ordine possono chiedere di vedersi assegnate maggiori competenze rispetto a quelle previste normalmente. La scuola, ad esempio, è una competenza statale, che le regioni virtuose potrebbero chiedere di gestire direttamente. L’elenco di competenze è molto lungo, ma esclude una serie di temi, come la tutela dell’ordine pubblico, che rimane in ogni caso esclusiva competenza dello stato. Inoltre, lo stato non ha alcun obbligo di assecondare le richieste delle regioni, nemmeno se queste sono sostenute da un referendum popolare (come hanno fatto Veneto e Lombardia).
L’articolo 116 è stato invocato per la prima volta lo scorso anno, ed è anche per questo che si discute molto su quali sarebbero le sue conseguenze.
Il presidente della regione Veneto Luca Zaia, uno dei sostenitori del referendum, ha sostenuto che con la riforma sarà possibile trattenere in regione fino ai nove decimi delle tasse riscosse in Veneto: attualmente una grossa parte viene raccolta dallo stato e redistribuita alle regioni italiane più povere. Sono in molti a temere che il vero obiettivo della concessione di maggiore autonomia sia ridurre il flusso di risorse dalle aree più ricche a quelle più povere del paese. È questo il timore espresso in un appello sostenuto dal quotidiano napoletano Il Mattino e firmato da numerosi intellettuali. Nell’appello, la richiesta di maggiore autonomia viene definita una forma di “secessione dei ricchi del Nord”.
Quello di un taglio dei trasferimenti sembra essere anche il timore dei ministri del Movimento 5 Stelle, che nelle regioni del Sud hanno il loro principale bacino di voti. Stefani racconta che è dalla fine di ottobre che il suo testo sull’autonomia è pronto e che le uniche cose che ancora mancano sono le opinioni degli altri ministri e una decisione del ministero dell’Economia che assegni alle tre regioni le nuove risorse. Stefani sostiene anche di aver ricevuto dal presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, la garanzia che il testo sarebbe arrivato in Consiglio dei ministri entro l’autunno: i ritardi dei ministri del Movimento nel rispondere rischiano però di ritardare l’approvazione del decreto.
Stefani ha risposto alle critiche sulla “secessione dei ricchi” sostenendo che all’inizio la concessione di maggiore autonomia non produrrà significativi cambiamenti nella distribuzione delle risorse tra Nord e Sud del paese. Nella prima fase della riforma, ha spiegato, le varie regioni riceveranno finanziamenti per gestire le “nuove competenze” sulla base dei costi storici sostenuti fino a quel momento. La regione Veneto, ad esempio, riceverà per le nuove attività di sua competenza la stessa cifra spesa dallo stato negli anni precedenti. Solo in un secondo momento, ha spiegato Stefani, si passerà a utilizzare i costi standard, cioè a stabilire in maniera centralizzata il costo di un determinato prodotto o servizio e quindi erogare alla regione quella cifra (indipendentemente dal fatto che in passato spendesse di meno o di più).
Questo scenario appare molto lontano dalle richieste dei presidenti di regione e degli altri leghisti, come il presidente del Veneto, Luca Zaia, che chiedevano invece di poter trattenere sul loro territorio la stragrande maggioranza delle tasse raccolte. Soltanto quando il governo approverà definitivamente un qualche tipo di testo sarà possibile capire se l’autonomia è più vicina ai desideri di Zaia e dell’ex presidente della Regione Lombardia, Roberto Maroni, che parlavano della possibilità di trattenere al Nord decine di miliardi di euro, o se invece sarà una soluzione più simile a quella spiegata dal ministro Stefani, con pochi cambiamenti nel flusso delle risorse. Una soluzione, quest’ultima, che sarebbe probabilmente più facile da accettare per i ministri del Movimento 5 Stelle.